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SPETTACOLO

Festa del Cinema di Roma

Larraín e il boom del cinema latino americano

L'incontro con il regista cileno ha concluso la retrospettiva a lui dedicata

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"Per me la chiave nel cinema è il mistero. Se un personaggio lo conosci troppo, la storia diventa meno interessante". Si presenta così Pablo Larraín, il regista cileno che ha incontrato ieri il pubblico al Maxxi, concludendo la retrospettiva a lui dedicata dalla Festa del Cinema di Roma, terminata con la proiezione di "El club", premiato all'ultimo festival di Berlino e candidato all'Oscar.

E' la prima retrospettiva decicata all'autore cileno, in un anno che ha segnato una marcia trionfale per il cinema latino americano. 

Proprio a Berlino, oltre al successo di Larraín, si è registrato il premio come migliore opera prima per il messicano "600 Millas", di Gabriel Ripstein, ugualmente candidato all'Oscar.

Anche a Cannes è stato premiato un esordiente latino americano: il premio opera prima è andato infatti al colombiano "Un mondo fragile" ("La tierra y la sombra"), diretto da César Augusto Acevedo. A questo si affiancano il riconoscimento per la miglior sceneggiatura, andato al messicano Michel Franco per "Chronic", e quello all'argentino "Paulina", di Santiago Mitre, nella Settimana della critica. 

Alla Mostra di  Venezia, per la prima volta, si è registrata una storica accoppiata: il leone d'oro è andato al venezuelano  "Desde allá" (Da lontano) di Lorenzo Vigas e quello d'argento all'argentino "El clan", diretto da Pablo Trapero.

Accanto ai maggiori festival internazionali, va ricordato che le ultime due edizioni degli Oscar hanno visto in entrambi i casi il successo di film diretti da registi messicani: nel 2013 "Gravity" di Alfonso Cuarón e nel 2014 "Birdman" di Alejandro González Iñárritu.

Mirate politiche di sgravi fiscali e una forte vitalità culturale sono al centro di questa stagione. Alle tre tradizionali maggiori cinematografie, Argentina, Brasile e Messico, si sono aggiunte altre realtà, dove si sono rafforzate dinamiche industriali significative, come nel caso di Colombia, Cile e Perù.

Alla fine degli anni sessanta, ricordava nei mesi scorsi "El Pais", il movimento del 'Nuevo Cine Latinoamericano' unì una serie di registi –Glauber Rocha, Fernando Birri, Tomás Gutierrez Alea, Miguel Littín o Raúl Ruiz– che contrastavano il cinema commerciale delle grandi produzioni e puntavano a un cinema “imperfetto”, secondo il manifesto che firmò Julio García Espinosa. Questo cinema si era data anche una missione: non solo descrivere il mondo in cui si vive, ma anche cambiarlo. I tempi dell'utopia sono però alle spalle e la nuova ondata del cinema latino americano sembra preferire una descrizione disincantata di questa realtà sociale, spesso accompagnata da un'estetica arida e una mancanza di stilizzazione volontaria. Tuttavia, non rinuncia alla politicizzazione e auspica un cambiamento. 

''Il mio è un cinema politico 'irresponsabile', non voglio trasmettere messaggi, mi sembrerebbe di insultare l'intelligenza degli spettatori'', ha detto sul tema il regista cileno nell'incontro al Maxxi. Secondo il giovane autore, classe '76, ''un cinema politico che comunicasse messaggi era forse necessario negli anni '60 e '70 quando si voleva rifondare la società. Per me il cineasta è come un bambino con una bomba in mano che può esplodere o no. Il vero cinema politico, quello che dà un pugno nello stomaco, è sensoriale, lascia emozioni forti''.

"'El club' si è inserito nel processo di creazione di un altro film, più grande e impegnativo, 'Neruda', che ho girato quest'anno. L'ho scritto e girato molto rapidamente''. La sceneggiatura ''non è mai stata data agli attori (tra i quali il suo interprete feticcio Alfredo Castro, Roberto Farias, Antonia Zegers). Non conoscendo la storia, potevano recitare solo nel presente, si è creato così il limbo in cui si trovano i personaggi''.

Larraín ha poi svelato un singolare metodo di lavoro: "Quando sono sul set tendo a cambiare molto. Le scene non sono tutte numerate, alcune le chiamo 'x'. Nel mio primo film, le 'x' erano solo 5, nell'ultimo hanno costituito la metà del prodotto finale. E' un modo per incontrare l'imprevisto, perché è nel montaggio che nasce il film. Meno ne so all'inizio meglio mi sento".

Figlio di politici di destra (''con loro ho difficoltà a parlare di politica'' dice sorridendo) il cineasta cileno ama lavorare con gli stessi collaboratori, e prima di iniziare le riprese, va a raccogliere le idee nella sua casetta al mare, dove con il direttore della fotografia Sergio Armstrong, ''rivediamo molti film. Non ne manca mai uno di Pasolini''.

Il giovane prete che in 'El Club', ha infine dichiarato Larrain incontrando la stampa, "vorrebbe una nuova Chiesa, pulita, umile rappresenta in un certo modo quello che sta cercando di fare anche Papa Bergoglio, in aperto conflitto con la Vecchia Chiesa, quella degli anelli e gioielli, delle decisioni dietro le porte chiuse".
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