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ITALIA

La deposizione del pentito

La Barbera al Processo Stato -Mafia: "Per Grasso era pronto l'esplosivo"

Il collaboratore di giusitizia davanti alla Corte d'Assise di Palermo ha dichiarato che Cosa nostra era "ottimista sulla sentenza della Cassazione e le stragi iniziarono dopo le condanne al maxiprocesso".  Sull'omicidio di Salvo Lima: "Si doveva dare una lezione allo Stato"

Aula bunker del carcere di Palermo
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Palermo Nell'aula bunker dell'Ucciardone a Palermo si tiene la diciottesima udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia. Sul banco dei testimoni, davanti alla Corte d'Assise di Palermo, c'è il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera che parla delle stragi decise da Cosa nostra. Il pentito rivela che per l'attuale presidente del Senato Pietro Grasso vent'anni fa la mafia decretò la condanna a morte con una bomba. Secondo La Barbera "C'era già l'esplosivo e il telecomando. Grasso doveva venire a Monreale, e lì doveva avvenire l'attentato. Facemmo un sopralluogo, ma poi non se ne fece più nulla, ma ci fu un problema tecnico. Rischiavamo che scoppiasse prima del passaggio e non se ne fece più nulla".

Le stragi dopo le condanne al maxiprocesso
La Barbera spiega che le stragi sono state decise dope le condanne del maxi processo: "In Cosa nostra c'era un certo ottimismo prima della sentenza della Cassazione. Quando però furono confermate le condanne del maxiprocesso, avallando il teorema Buscetta, fu decisa strategia di attacco allo Stato, con le stragi. Iniziammo con Falcone, che era sempre stato un nostro nemico dichiarato - riferisce La Barbera - e si proseguì con Borsellino".

La lista dei politici e i figli di Andreotti
La Barbera parla della lista di politici da colpire che, sempre nell'ottica del piano di guerra ordito da Totò Riina, la mafia aveva stilato. "L'obbiettivo era anche colpire la Democrazia Cristiana:  tra gli obiettivi c'erano Salvo Lima e i cugini Salvo". Nell'elenco delle persone
da eliminare c'era anche l'ex ministro Calogero Mannino. "Si parlò anche di colpire i figli di Andreotti - dice confermando quanto rivelato da altri pentiti - perché il padre non aveva fatto nulla per Cosa nostra, si era disinteressato del 41 bis, non l'aveva fatto togliere e non aveva fatto tornare tutto come prima".  La Barbera agginge che prima di essere arrestato Brusca "mandò il genero di Nino Salvo, Gaetano Sangiorgi, a Roma per capire se Claudio Martelli era un facile obiettivo. Forse era stato scelto peché si era fatto tanto per procurargli i voti - spiega - e lui parlava male di Cosa nostra ed era stato uno dei protagonisti della legge sul 41 bis". 

L'omicidio di Lima
La Barbera nella sua deposizione spiega anche il presunto motivo dell'omicidio del parlamentare Salvo Lima: "Si doveva dare una lezione allo Stato - dice -  tutti quelli che avevano fatto delle promesse e che poi non avevano mantenuto, si dovevano uccidere". La Barbera continua: "Nell'estate del '92 Cosa nostra decise che si dovevano fare dei danni perché non erano state mantenute le promesse fatte". 

"Gli ordini arrivavano da Riina"
Alla domanda del pm Francesco Del Bene su quali fossero queste promesse, La Babera replica: "Quella che il maxiprocesso in Corte di Cassazione andasse bene. Si sperava in qualcosa di buono per Cosa nostra, come era successo nei tempi passati, ma questo non era successo e quindi si è deciso di commettere omicidi, come Salvo Lima e Ignazio Salvo, ma anche attentati. L'ordine veniva da Totò Riina, a noi lo riferiva Bagarella che faceva da ambasciatore".

L’altra trattativa e gli attentati contro il patrimonio artistico
La trattativa avviata da Cosa nostra con i carabinieri, tramite l'eversore nero Paolo Bellini, per barattare la restituzione delle opere d'arte rubate con gli arresti ospedalieri per alcuni boss è stata un altro dei temi al centro della deposizione del pentito Gioacchino La Barbera che ha testimoniato al processo sulla trattativa Stato-mafia.
 
Il dialogo avviato dal mafioso Nino Gioé, poi morto suicida in carcere, con Bellini, conosciuto nell'istituto di pena di Sciacca, è uno dei capitoli della ricostruzione dell'accusa che ipotizza l'esistenza di una trattativa, quella appunto condotta da Gioé, parallela a quella avviata prima da Totò Riina, poi da Provenzano, coi carabinieri del Ros tramite Vito Ciancimino.
 
Bellini sarebbe stato in contatto con un generale dell'Arma che gli avrebbe dato le foto di opere da recuperare. In cambio Gioé avrebbe chiesto i domiciliari o gli arresti ospedalieri per boss del calibro di Bernardo Brusca e Pippo Calò. Secondo La Barbera, l'accordo, di cui si parlò tra maggio e settembre del 92, non andò a buon fine.
 
Per il pentito fu Bellini a suggerire a Gioé di farla finita con le stragi e colpire il patrimonio artistico italiano. "Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa", le parole dette da Gioè a La Barbera. "E noi cominciammo - ha aggiunto il pentito - a organizzarci in questo senso". Nel '93 la mafia prese di mira obiettivi artistici come la chiesa di San Giovanni al Laterano, San Giorgio al Velabro a Roma e la sede dell'Accademia dei Georgofili a Firenze.
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