"Fuori era primavera". L'Italia in lockdown raccontata da Salvatores è su RaiPlay
Il film collettivo che racconta il periodo più duro della prima ondata della pandemia
Il film collettivo di Gabriele Salvatores che racconta l'Italia nei lunghi mesi del lockdown per la pandemia di coronavirus arriva sulla piattaforma on line di RaiPlay il 10 dicembre. Dopo il passaggio in rete sarà trasmesso il 2 gennaio su Rai Tre in prima serata.
Voluto da Indiana Productions e Rai Cinema, realizzato con l'entusiasta partecipazione di circa 8.000 italiani che hanno inviato i propri video amatoriali nel periodo del lockdown, montato da Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti, il film è un intenso viaggio attraverso le solitudini, il dolore, la speranza e la solidarietà nel periodo più duro della prima ondata della pandemia, una fotografia dell'Italia di oggi in uno dei periodi storici più difficili. Dalle piazze vuote agli eroi in prima linea, dalle canzoni in balcone alla vita in casa. Salvatores segue l'ordine cronologico degli eventi da quando il coronavirus era un problema lontano, passando per i giorni più bui, fino al lento ritorno alla vita con un occhio particolare alla rinascita della natura in contrasto con le strade vuote delle grandi città. Il tutto ripreso dagli smartphone e dalle telecamere degli italiani, che hanno inviato al regista i video.
"All'inizio avevamo un approccio più classico, quasi documentaristico - racconta Salvatores - pur avendo chiesto alla prima squadra di visionatori, una ventina, di individuare dei nuclei narrativi e dei personaggi a loro modo protagonisti. Poi ci siamo resi conto che il tutto rischiava di prendere un taglio televisivo che non poteva competere col flusso delle notizie quotidiane e allora abbiamo scelto la strada delle emozioni, di un sentire diffuso in cui il dolore e la speranza si fondono nelle parole e nei gesti che le persone ci avevano affidato con generosità".
Il film si apre su una lunga serie di riprese della natura incontaminata, delle specie animali che si sovrappongono ai riti collettivi della specie umana. Finché un pipistrello vola in cielo. "Non sarò mai un negazionista - precisa il regista -: so bene che il virus esiste, l'ho provato in prima persona e credo alla ricostruzione del suo passaggio dall'animale all'uomo. Ma è altrettanto vero, come dice uno dei personaggi del film, che per la natura anche noi siamo una sorta di virus malefico. Abbiamo sconciato la terra e siamo responsabili del degrado per cui il pianeta boccheggia. Abbiamo favorito questa pandemia coi nostri comportamenti e oggi la considero un segnale d'allarme a cui dovremmo prestare attenzione".
Nel film c'è solidarietà, voglia di comunità e di mutuo soccorso, tutte cose che hanno caratterizzato la nostra primavera e che oggi sembrano scolorite. "Oggi al sentimento di comunità - risponde il regista- si è sostituita la paura, la rabbia, la confusione. Purtroppo noi italiani non abbiamo una storia di comunità; possiamo essere straordinari, inventivi, geniali, ma facciamo fatica a remare tutti nella stessa direzione. E' un capitale che abbiamo sprecato e me ne accorgo anche nei miei comportamenti che sono cambiati dopo 50 giorni di isolamento da solo a Milano. Sono stato in fondo fortunato, ho avuto il virus in forma leggera, ma in casa ho dovuto reimparare quei gesti quotidiani da cui rifuggo da sempre. In fondo faccio il cinema anche per avere ogni volta una buona ragione per evadere dalla routine e costruirmi un mondo diverso. Voglio dire grazie a un medico, Raffaele Bruno del San Matteo di Pavia, che mi ha seguito a distanza, ha saputo trovare le parole giuste, mi ha confermato quanto il nostro servizio sanitario sia un'eccellenza e come vi lavorino persone straordinarie. Molte volte in questo periodo terribile proprio medici e infermieri sono stati i nostri veri 'padri', persone capaci di esserci, di aiutare, di parlare rischiando per primi".
C'è una sorta di filo rosso nel film, il rider che attraversa una Milano notturna e vuota, quasi irriconoscibile, e scandisce l'evoluzione del racconto, fino a un'alba incerta. Richiama una scena simile di "Happy Family". "In realtà è uno di quei casi -sorride Salvatores - in cui ti accorgi a cose fatte che il tuo sguardo si è sovrapposto alla realtà. Ma è vero che fin dal nome e dal mestiere - rider, corridore solitario - quel ragazzo ci ha spinti nella direzione giusta. Così come il padre di famiglia che insieme ai suoi lascia tutto e si rifugia a Lampedusa, dove la natura appare incontaminata. Spetta a lui l'ultima inquadratura del film: una barchetta in mezzo al mare. Non sappiamo dove andrà, ma tutto intorno c'è un mare bellissimo, inviolato".
Il regista ha voluto firmare "Fuori era primavera" come un'opera collettiva: "Intanto è la realtà - risponde - perché noi abbiamo invitato chi voleva a darsi attraverso i propri filmati e su questi abbiamo lavorato con la sola eccezione delle parole dei medici che avevano altro a cui pensare e che abbiamo disturbato noi nei pochi minuti di pausa, facendoci accompagnare con pudore in quelle corsie del dolore che non vediamo mai. Poi c'è il mio retaggio di uomo di teatro degli anni '70, quando al Teatro dell'Elfo non firmavamo gli spettacoli singolarmente, sentendoli frutto di un lavoro collettivo. Mi è piaciuto respirare quella stessa atmosfera, anche se alla fine uno sguardo soggettivo si impone".
Presto il regista, premio Oscar nel 1992 per Mediterraneo, tornerà al cinema con una rilettura dei "Comedians" di Trevor Griffiths che aveva portato al successo in teatro, negli anni '80. "E' presto per parlarne visto che sto lavorando ora al montaggio, ma posso dire che sarà il mio film più estremo. Tutto girato in una stanza, tra Polanski e Cassavetes, privilegiando il tono originale del testo piuttosto che la sua mordente comicità.