POLITICA
Referendum, il quesito e le precedenti consultazioni
Si vota barrando la casella del Sì oppure quella del No. Una formulazione che ha sollevato le dure critiche delle opposizioni, che hanno accusato il governo di dare un'indicazione precisa agli elettori a favore del Sì. Eppure, il quesito risponde alle prescrizioni di legge. E precisamente, a determinare come deve essere sviluppato il quesito è la legge 352 del 1970, "norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo", che all'articolo 16 stabilisce: il quesito sulla scheda deve riprendere il titolo della riforma, così come pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Diverse furono le formulazioni dei quesiti degli ultimi referendum costituzionali: più concise e senza l'elenco delle principali norme contenute nella legge di revisione costituzionale. Ma ciò fu determinato dal titolo stesso che fu dato alle rispettive riforme. I precedenti più ravvicinati sono due referendum costituzionali, quello che si è svolto nel 2006 sulla riforma del governo Berlusconi, la cosiddetta 'Devolution', e quello che si svolse nel 2001 per la riforma del Titolo V fatta dal centrosinistra. Nel 2001 il referendum si svolse in un'unica giornata, il 7 ottobre. Nel 2006, invece, la consultazione popolare occupò due giorni, domenica 25 e lunedì 26 giugno.
Ma cerchiamo di capire meglio quali sono i punti chiave, le ragioni del Sì e quelle del No. Con il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre si voterà per confermare o respingere la riforma Renzi-Boschi, contenuta nella legge costituzionale approvata dal Parlamento lo scorso 12 aprile. Un’approvazione avvenuta con un numero inferiore dei due terzi dei componenti di ciascuna camera e, pertanto, subordinata all’esito della consultazione popolare, il terzo nella storia della Repubblica Italiana dopo quelli del 2001 e del 2006. Non essendo un referendum abrogativo, non sarà necessario raggiungere alcun quorum per la validità dello stesso. La riforma entrerà in vigore se il numero di voti favorevoli sarà superiore al numero dei contrari, a prescindere dalla partecipazione al voto.
I PUNTI CHIAVE DELLA RIFORMA – Ma cosa prevede, concretamente, la nuova riforma della Costituzione, su cui saremo chiamati ad esprimerci il prossimo 4 dicembre 2016? Vediamo, punto per punto, le novità introdotte nella legge Renzi-Boschi:
1.Bicameralismo perfetto: è la fine. Stop al sistema che prevede due camere con identici poteri. La riforma costituzionale pone fine al bicameralismo paritario, promuovendo la Camera dei Deputati come unica assemblea legislativa con il potere di votare la fiducia al governo.
2.Senato: nuova composizione. Senatori ridotti da 315 a 100, di cui 5 saranno scelti dal Presidente della Repubblica e avranno un mandato di massimo 7 anni, non rinnovabile. Gli altri 95 saranno eletti con metodo proporzionale dai consigli e scelti tra i consiglieri regionali e i membri sindaci.
3.Senato: nuova funzione. Le competenze legislative dei senatori riguarderanno le riforme costituzionali, le ratifiche dei trattati internazionali, le leggi elettorali degli enti locali e quelle sui referendum popolari. 4.Presidente della Repubblica: nuove modalità di elezione. Il capo dello Stato sarà eletto dai 630 deputati e dai 100 senatori; per i primi tre scrutini saranno necessari i due terzi dei componenti, poi dalla quarta votazione si scende ai tre quinti, mentre dal settimo basterà la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
5.Referendum: come potrà essere proposto? Con la riforma si introduce la possibilità, con la raccolta di 150.000 firme, di organizzare referendum propositivi, ovvero proposte di nuove leggi ordinarie (non costituzionali) da parte dei cittadini. Ad oggi i referendum possono solo confermare o abrogare leggi già approvate. Per questo tipo di referendum (abrogativi) il quorum sarà fissato al 51% dei votanti delle ultime politiche. Invece, se la raccolta raggiunge tra le 500 e 800mila firme resta il quorum del 51% degli aventi diritto al voto.
6.Giudici della Consulta: il ruolo delle due Camere. I 5 giudici della Consulta non saranno più eletti dal Parlamento in seduta comune, ma saranno scelti separatamente dalle due Camere. Ne spetteranno tre alla Camera dei Deputati e due al Senato.
7.Cnel e Province: via all’abolizione. Via al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, con la nomina di un commissario straordinario a cui sarà affidata la liquidazione e la ricollocazione del personale presso la Corte dei Conti. Via anche ogni riferimento alle Province.
8.Regioni ed enti locali: via i responsabili dei dissesti. Saranno introdotti indicatori di costi e fabbisogni per rendere più efficienti tutte le funzioni di Comuni, città metropolitane e Regioni, affinché in caso di accertato dissesto verranno allontanati gli amministratori
9.Legge elettorale: possibile ricorso alla Consulta. Prima della promulgazione, tutte le leggi che disciplinano l’elezione dei parlamentari potranno essere sottoposte alla Consulta per un giudizio preventivo. In caso di illegittimità, la legge non verrà promulgata.
10.Quote rosa: il concetto di equilibrio. Nuovo comma nell’articolo 55 della Costituzione: “Le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”.
LE RAGIONI DEL Sì
Analizzare le ragioni del Sì, anche in virtù del testo del referendum, è piuttosto semplice.
1.Superamento del bicameralismo perfetto: l’addio a questa forma di governo darebbe il via a una riduzione dei costi della politica e l’accelerazione dei tempi per approvare una legge, ponendo fine alla cosiddetta “navetta”, ossia quel rimbalzarsi la futura legge tra Camera e Senato.
2.Riduzione dei costi della politica: con la riduzione del numero dei senatori, l’abolizione del Cnel e delle Province e la regola secondo cui i consiglieri regionali non potranno percepire indennità più alte rispetto a quella del sindaco del relativo capoluogo di Regione, la voce dei costi della politica si ridurrà.
3.Più chiarezza sulle competenze di Regioni e Stato: stop alle competenze concorrenti, visto che ciascun livello di governo avrà proprie e specifiche funzioni legislative. Alcune tematiche di interesse nazionale saranno competenza esclusiva dello Stato (reti di trasporto e navigazione, formazione professionale, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia), mentre alle Regioni verranno delegate competenze legislative in tema di turismo, organizzazione sanitaria e sviluppo socio-economico.
4.Enti locali al centro dell’attività politica: il Senato diventerà la perfetta espressione delle Regioni e dei Comuni; così facendo gli Enti locali troveranno finalmente la loro partecipazione diretta alla formazione delle leggi dello Stato.
LE RAGIONI DEL NO
Perché, invece, gli italiani dovrebbe opporsi all’approvazione della Renzi-Boschi? Illegittimità della riforma, conflitti di competenze, riduzioni fasulle dei costi della politica. Ecco le principali argomentazioni dei sostenitori del rifiuto: 1.Illegittimità di una maggioranza: il testo della riforma è il risultato di una maggioranza, risicata, prevalsa nel voto parlamentare sotto lo slogan “abbiamo i numeri”, piuttosto che di un vero consenso maturato fra le forze politiche.
2.Un imperfetto bicameralismo: l’obiettivo di un superamento del bicameralismo perfetto è condiviso e condivisibile, ma con questa riforma non si dà vita ad una seconda Camera intesa come reale espressione delle istituzioni regionali: si va solo a indebolire un Senato rappresentanza di enti locali articolati in base ad appartenenze politico-partitiche. 3.Maggiore complicazione legislativa: questa via di superamento del bicameralismo perfetto porta a una pluralità di procedimenti legislativi, differenziati in base alle diverse modalità di intervento del nuovo Senato.
4.Riduzione dei costi della politica: l’abolizione del Cnel e delle Province e la riduzione del numero dei Senatori dovrebbe portare, secondo Renzi, un risparmio annuo di 500 milioni di euro. Ma un documento della Ragioneria dello stato certifica il risparmio a meno di 49 milioni di euro all’anno.
Nel 2006 si recò alle urne il 52,3% degli aventi diritto: vinse il No con il 61,3%, il Sì si fermò al 38,7%. Nel 2001, invece, si recò alle urne il 34% degli aventi diritto: vinsero i Sì con il 64,2%, i No incassarono il 35,8%.