21 Febbraio 2020
Quando tutto è iniziato: la prima notte di Codogno
Un bizzarro scherzo del destino avvicinava quel borgo della bassa lombarda che profuma già d'Emilia a Wuhan, la megalopoli dove tutto è cominciato
Frugando nelle tasche, dopo alcune settimane di quarantena, ho ritrovato uno scontrino della notte in cui -da spettro lontanissimo- il Covid è entrato nelle nostre vite. È la ricevuta di un bar: 6.37, 21 Febbraio 2020, Codogno. Cappuccini e brioches per me e per la nostra troupe, monetine, sguardi straniti, l'ultimo scampolo di normalità prima della vita -sospesa- di questi dodici mesi.
Un bizzarro scherzo del destino avvicinava quel borgo della bassa lombarda che profuma già d'Emilia a Wuhan, la megalopoli dove tutto è cominciato. Un bar gestito da una ragazza di origine cinese a cui gli avventori rivolgevano mille domande -la battaglia massmediatica dei virologi sarebbe cominciata solo pochi giorni dopo- mentre la tv del bar srotolava titoli a caratteri cubitali sul Coronavirus, riconosciuto a soli duecento metri da lì: Come stanno, i tuoi parenti in Cina? È davvero poco più di una influenza? Ricordo il volto di quella ragazza, spaventata come tutti, in una affannata ricerca di risposte possibili, tra una tazzina e l'altra.
Della notte che avevamo trascorso fuori dall'Ospedale di Codogno ho pochissime immagini, ma molto nitide. La sveglia brusca alle 2, appena arriva la notizia; una partenza azzardata -ovviamente nessuna mascherina, erano anzi giorni di notizie rassicuranti dallo Spallanzani dove i pazienti ricoverati sembravano stare meglio-, i fari del furgoncino che tagliavano l'autostrada che da Milano a Bologna non ha nemmeno una curva, le poche immagini che abbiamo potuto prendere fuori dal pronto soccorso già inaccessibile.
Siamo arrivati per primi, siamo andati subito in diretta, dalle 4.30: notizie, pochissime. Mattia e i suoi 38 anni in terapia intensiva, lottando per la vita. Sua moglie in attesa di partorire la loro bimba, i genitori pronti ad essere portati in isolamento. Il sospetto che il virus fosse arrivato da un amico di Mattia che aveva incontrato un manager cinese, e poi quel tampone negativo che apriva uno scenario impensabile: il virus era già in mezzo a noi, e Mattia non era affatto il Paziente Uno, ma solo il primo italiano a cui -grazie a una forzatura del protocollo di una dottoressa dell'Ospedale di Codogno- era stata riconosciuta l'infezione.
Ma di quelle ore notturne trascorse da solo con quella che era diventata LA notizia, ho una fotografia più chiara di tutte: noi, fuori dall'Ospedale, un faretto per fare luce durante i collegamenti, le poche auto di passaggio che rallentano per chiederci che cosa stesse succedendo. "Il Coronavirus", rispondevamo. Non dimentico l'espressione meravigliata, spaurita di quegli automobilisti che ripartivano verso la loro giornata di lavoro, piena di dubbi a cui nessuno poteva dare risposta.
Qualche ora dopo registrammo anche i commenti -un po' scocciati- dei cittadini che non capivano perché fosse necessario indossare la mascherina per entrare in ospedale. O perché l'esame programmato era saltato all'improvviso. In corsia c'era già un altro mondo. Chiacchierando di quella notte col responsabile dell'ospedale, mesi dopo, mi colpì un gesto che faceva con la mano destra, che saliva su e giù come sulla cresta di un'onda. "La nave imbarcava acqua nella tempesta, ma non è mai affondata".
Dopo il mio ritorno a casa da Codogno si è aperto un mese di lavoro in isolamento, senza alcun sintomo. Le persone più importanti della mia vita, invece, sono state quasi tutte peggio di me ma per fortuna possiamo raccontarlo, oggi. In quel mese ho continuato a osservare da lontano la dignità di Codogno, diventata zona rossa e oggetto, in qualche modo, di stigma. Nel cuore di quella Lombardia impaurita, ferita e spiazzata da uno stop così violento alla sua corsa sfrenata - una corsa per cui spesso, non senza colpe, gli imprevisti sono ostacoli da saltare in fretta - si sono precipitati decine di colleghi di cui ho ammirato il talento e il coraggio. Le inviate di Rai News 24 arrivate qui, Silvia Balducci, Emanuela Bonchino e Chiara Paduano, hanno mostrato la grandezza del lavoro di squadra, la tessitura di quelle giornate in prima linea -credo- ci legherà per sempre.
Un anno dopo quella notte ci sono i vaccini che sognavamo e siamo tutti un po' diversi. Difficilmente, dopo, torneremo quelli di prima: non è necessariamente una cattiva notizia. Ormai si sono scritti trattati sulla nostra nuova grammatica quotidiana - dentro mascherine, distanziamenti, lockdown, tute anti-contagio, smartworking e DAD, fuori abbracci, socialità, passatempi e tutte le abitudini che torneranno a colorarci la vita.
Il Covid si è dimostrato un eccezionale acceleratore che ha mostrato senza sconti tutte le nostre fragilità, goffaggini, malinconie. Ha riequilibrato le priorità, accelerato le reazioni, amplificato il nostro modo di essere: anche empatie ed egoismi non saranno più come prima. Nel mio piccolo ho messo via una vagonata di sensazioni che faccio ancora fatica a descrivere, e non solo perché in quei giorni anch'io ho contratto il virus.
E allora ripenso alla notte di Codogno come ad una specie di sgraditissima sorpresa che però mi ha regalato una certezza: il servizio pubblico, nella vita civile e nel racconto del paese, ha (ancora?) (avrà sempre?) un ruolo essenziale, che in un momento così decisivo è più che funzione, è missione.
Vorrei tornare presto in quel bar di Codogno. Chissà di cosa discutono in queste mattine quegli anziani avventori, in una città che ha perso centinaia di persone. Chissà se la barista cinese, tra una tazzina e l'altra, ha trovato le parole giuste per rassicurare tutti, e se qualcuno le ha regalate a lei. A casa conservo ancora quello scontrino, ma mi è restata la voglia di una colazione normale.