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Coronavirus

Un'altra dimensione

Smartworking, la nuova concezione del tempo e dello spazio di lavoro

Intervista ad Alessandra Gangai, Ricercatrice Senior dell’Osservatorio Smart Working - Politecnico di Milano. In piena pandemia ha trasformato il mondo del lavoro, ora la sfida dello smart working si gioca tra "best practice" e "nodi da sciogliere"

Alessandra Gangai
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di Tullia Fabiani

  “Un radicale punto di svolta” così Alessandra Gangai, Ricercatrice Senior dell’Osservatorio Smart Working - Politecnico di Milano, definisce l’emergenza Covid 19 a proposito dell’impatto avuto sul mondo del lavoro.  Un cambiamento drastico e profondo che ha aperto la strada a nuovi scenari, molti dei quali ancora da costruire.
 
Nel 2020 l'emergenza della pandemia ha reso lo Smart Working una necessità immediata e ha accelerato rapidamente la sua affermazione. Secondo le vostre ricerche, in termini di numeri quale è stato l’impatto?
“Il 94% delle Pubbliche Amministrazioni, il 97% delle grandi imprese e il 58% delle Piccole e medie imprese hanno esteso la possibilità di lavorare da remoto ai propri dipendenti e l’impatto è stato travolgente: il numero di lavoratori che svolgono le attività da remoto per una parte significativa del loro tempo è improvvisamente passato a una cifra di circa 6,58 milioni, più o meno 1/3 dei lavoratori dipendenti. Tale numero include i dipendenti di diverse tipologie di imprese: si stimano circa 1,85 milioni in ambito pubblico, 2,11 milioni nelle grandi imprese, 1,13 milioni nelle PMI e 1,5 milioni nelle microimprese. Ma sebbene il termine sia ormai molto utilizzato, quello che abbiamo sperimentato in questi mesi non è il “vero” Smart Working”.
 
E perché? Cosa abbiamo sperimentato allora?
“Perché lo Smart Working è un accordo libero e responsabile tra azienda e lavoratore e prevede che le persone, con flessibilità e autonomia, scelgano il luogo e l’orario più adatti allo svolgimento di una determinata attività a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Inoltre, lavorare a distanza può significare non solo lavorare dalla propria abitazione, ma anche da luoghi come hub aziendali, spazi di coworking, biblioteche e altri spazi pubblici o privati in linea con le esigenze e le preferenze del lavoratore. Durante la prima fase dell’emergenza, tuttavia, non è stato possibile esercitare i presupposti di autonomia a flessibilità nella scelta del luogo di lavoro e neppure si è riusciti a trasformare la cultura organizzativa, i comportamenti e gli stili di leadership verso approcci più orientati alla responsabilizzazione sui risultati. Quella che si è sperimentata, dunque, è una modalità di Smart Working molto particolare, con caratteristiche estreme ed ‘emergenziali’”.
 
Caratteristiche che dovranno, dunque, essere riviste?
“Lo Smart Working fa riferimento a una filosofia manageriale che introduce una nuova concezione del tempo e dello spazio di lavoro, che può eventualmente includere il lavoro da remoto. È chiaro che il lavoro emergenziale ha caratteristiche più affini al telelavoro che al vero Smart Working, proprio per mancanza di scelta del luogo di lavoro, e considerando che la propria abitazione è stata l’unico luogo di lavoro disponibile, ma seguendo l’accezione corretta il fenomeno rimarrà distinto dal concetto di telelavoro, proprio per la sua caratteristica legata alla trasformazione del modello organizzativo aziendale”.

Quali altre criticità sono emerse dalle vostre indagini?
“La forzatura rispetto al dover lavorare sempre da casa, unita alla limitazione negli spostamenti, ha portato le persone a percepire alcune criticità di solito associate al telelavoro, come la difficoltà a separare i tempi dedicati al lavoro da quelli alla vita privata (29%) e a mantenere un corretto work-life balance (28%). Molti lavoratori, infine, hanno messo in evidenza la percezione di un senso di isolamento (29%), non tanto dai colleghi del proprio team di lavoro, nei confronti dei quali si è spesso assistito a un intensificarsi delle interazioni, quanto piuttosto verso l’organizzazione nel suo insieme. Ma anche dal punto di vista delle organizzazioni l’applicazione emergenziale dello Smart Working ha comportato alcuni problemi. Il 58% delle grandi imprese ritiene che la difficoltà da parte delle persone a mantenere un corretto equilibrio tra vita privata e professionale sia stata tra le principali criticità del periodo. Il 40% evidenzia la disparità nel carico di lavoro delle persone: ciò è dovuto al fatto che alcuni lavoratori si sono trovati a dover fronteggiare una mole di attività significativa mentre per altri si è sensibilmente ridotta. Il 33% delle grandi imprese ha evidenziato l’impreparazione da parte dei manager a gestire questa nuova modalità di lavoro e il 31% le limitate competenze digitali delle persone”.

Ci sono stati esempi di best practice aziendali?
“Tra le grandi imprese che hanno realizzato iniziative interessanti segnaliamo: Credem dove il  progetto di Smart Working, avviato con una sperimentazione a maggio 2015 nella Direzione Centrale, a seguito dei risultati positivi, nel 2017 è stato esteso a tutte le società del gruppo, ad esclusione dei ruoli di front office. Gradualmente, il progetto è stato esteso a tutti i dipendenti con mansioni compatibili al lavoro da remoto (oltre 2000 persone). Per fronteggiare l’emergenza legata al COVID-19, è stata data la possibilità di lavorare in full remote a tutti i dipendenti, raggiungendo più di 5000 lavoratori da remoto. Inoltre, è stata data la possibilità di lavorare da remoto un giorno a settimana anche ai profili del front office. Poi Enel dove il progetto viene introdotto nel 2016. La gestione dell’emergenza sanitaria si è caratterizzata da un grande supporto nei confronti dei propri dipendenti e dalla rapida remotizzazione delle attività lavorative che ha permesso a oltre 37.000 persone di continuare a lavorare efficacemente da remoto C’è anche Amplifon: il progetto è iniziato a marzo 2020 in piena emergenza sanitaria, e si è basato su 4 pilastri principali: Innovation, Effectiveness, Empowerment e Flexibility. L’iniziativa si inserisce in un programma più ampio di digitalizzazione e rinnovamento dei luoghi e delle modalità di lavoro, chiamato Winning Workplace, con l’obiettivo di rispondere meglio alle esigenze dei dipendenti e di aumentare l’attrattività dell’organizzazione nel mondo del lavoro”. Infine Siemens: Dal 2011, il progetto “Siemens Office” ha attuato un cambiamento culturale, incentivando autonomia e responsabilità dei lavoratori. L’emergenza non ha impattato sull’esperienza lavorativa: le persone erano pronte sia culturalmente che tecnologicamente al remote working. Nonostante ciò, nel momento in cui è stato possibile riaprire la sede di lavoro, la volontà è stata quella di permettere alle persone di tornare in ufficio, nella consapevolezza che i processi lavorativi possono trarre beneficio e valore aggiunto dal confronto e dallo scambio di idee dall’esperienza di lavoro in presenza.
 
Fino al 31 marzo le aziende possono ricorrere allo Smart Working con una procedura semplificata. Dopo cosa succede?
“Al momento le organizzazioni possono ricorrere allo Smart Working con una procedura semplificata e attuabile senza accordo preventivo col dipendente. Al termine dell’emergenza tornerà valida la legge 81 che rimarrà il quadro normativo di riferimento per avviare iniziative di Smart Working. Ci auguriamo che le criticità sorte da un utilizzo estremo ed emergenziale del fenomeno non portino a snaturare lo Smart Working, trasformandolo da innovazione organizzativa a diritto soggettivo, obbligo o adempimento burocratico. Vorrebbe dire perdere l’opportunità di dare una scossa positiva alla cultura del lavoro proprio in un momento in cui il Paese ne ha immenso bisogno”.
 
Come potrebbe cambiare lo scenario nel 2021?
“L’esperienza vissuta ha creato nuove abitudini e aspettative nei lavoratori e ha fatto maturare nelle organizzazioni nuove consapevolezze sul modo di lavorare. Tutto questo si dovrà tradurre in un diverso approccio al lavoro che caratterizzerà il “new normal”. Una prima consapevolezza riguarda il fatto che lo Smart Working può potenzialmente riguardare una platea di lavoratori molto più ampia di quella a cui tradizionalmente si pensava: tantissimi lavori e attività che si riteneva richiedessero necessariamente la copresenza fisica, sono stati per necessità svolti da remoto e quindi in futuro molte altre mansioni potrebbero essere realizzate efficacemente da remoto a fronte di un’opportuna revisione e digitalizzazione dei processi. Un secondo aspetto riguarda il cambiamento degli stili di vita e delle esigenze dei lavoratori che necessariamente si tradurranno in un diverso modo di vivere la sede aziendale in una richiesta di maggiore flessibilità in termini di giornate da remoto e di integrazione della dotazione tecnologica. Infine, nel guardare al futuro del lavoro occorre comprendere che lo Smart Working non sarà un tema rilevante solo per le organizzazioni, ma avrà risvolti sull’intero ecosistema fatto di servizi, città e territori”.
 
Ad esempio?
“Già prima dell’emergenza, lo Smart Working stava dimostrando i suoi impatti sulla società. Oltre ai benefici di riduzione delle emissioni di CO2 e del traffico, si deve aggiungere il beneficio difficilmente quantificabile, ma molto concreto, della valorizzazione di interi territori e di spazi urbani oggi mal utilizzati. Grazie allo Smart Working le città possono diventare più belle, sostenibili e inclusive, attivando anche nuove forme di socializzazione e nuovi modelli di business. Il diffondersi esponenziale in diverse città italiane di spazi di coworking e di aree pubbliche attrezzate per lavorare, dimostra già oggi le enormi potenzialità sociali di questi nuovi modelli di organizzazione del lavoro. L’esperienza vissuta è stata e sarà un forte stimolo al cambiamento e in futuro i luoghi in cui vivremo e lavoreremo potranno ancora cambiare, così come cambieranno i criteri con cui si sceglieranno”.
 
Invece, quali i nodi critici ancora da sciogliere?
“Un punto di attenzione riguarda gli impatti che il perdurare dell’emergenza e del lavoro a remoto possono portare dal punto di vista psicologico delle persone: ad esempio senso di isolamento dall’organizzazione, overworking, sensazione di essere sempre connessi e mancanza di socializzazione che possono compromettere la motivazione il rendimento ma soprattutto la salute psicologica dei lavoratori. Per questo un ruolo fondamentale è ricoperto dalla sede aziendale come luogo identitario e di socializzazione e relazione”.
 
C'è la possibilità che, superata l'emergenza, lo Smart Working possa finire ridimensionato?
“La Ricerca ci ha consentito di stimare per il termine dell’emergenza una leggera decrescita del numero di smart worker rispetto ai numeri del lockdown, ma una crescita rispetto ai numeri di settembre 2020, in cui si stimavano 5,06 milioni di lavoratori da remoto; per le grandi imprese si stimano circa 1,72 milioni di lavoratori, analogamente per le PMI 920 mila e per le microimprese 1,23 milioni.
Infine, per le PA il trend di crescita è maggiore e i lavoratori da remoto si stima saranno pari a 1,48 milioni. Nel complesso gli smart worker al termine dell’emergenza saranno 5,35 milioni”.

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