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MONDO

Mercuri: “Il destino della Libia è quello di una 'instabilità controllata'"

​Intervista all'analista esperta di politica estera

Michela Mercuri (screenshot)
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di Pierluigi Mele ​Lo scenario libico è sempre più instabile. Continue sono le violazioni della tregua. Anche ieri sono avvenuti scontri.
Questi sono avvenuti nelle città costiere di Al Hisha, Wed Zumzum e Abu Qurain a sud della città situata a 200 chilometri a est di Tripoli. Lo riportano fonti delle milizie alleate al governo di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale.
Le forze di Haftar stanno avanzando a circa 120 chilometri a est di Misurata, vicino alla città di Abugrain.

Allo stesso tempo, un ufficiale delle forze di Haftar ha fatto sapere di aver strappato il controllo di due città, Qaddaheya e Wadi Zamzam, proprio sulla strada per Abugrain.  
In questo contesto si fa sempre più complicata e difficIle la possibilità di una soluzione del grande marasma libilico cerchiamo di fare il punto con la professoressa Michela Mercuri.

Michela Mercuri è Docente universitario, componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.). Analista di politica estera, consulente, autrice, editorialista e commentatrice per programmi TV e radio nazionali. Le sue attività si concentrano su Mediterraneo e Medio Oriente, analizzando l’impatto della storia sulle problematiche attuali. Ha firmato diverse pubblicazioni, tra cui il libro Incognita Libia – cronache di un paese sospeso (2017).

Professoressa  Mercuri, il dopo Berlino, cioè la conferenza internazionale dedicata alla Libia, si sta caratterizzando sempre più come una finta tregua tra le parti. Nei giorni scorsi vi sono stati combattimenti a sud di Tripoli, ma soprattutto il generale Haftar ha chiuso i rubinetti del petrolio (provocando finora danni per 318 milioni di dollari), ma sul ricatto petrolifero di Haftar torneremo dopo. Torniamo alla Conferenza di Berlino. Nel commentare i risultati del vertice, qualche osservatore internazionale aveva parlato di "bicchiere mezzo pieno". A me sembra, guardando i comportamenti dei "signori della guerra", che il bicchiere sia completamente vuoto. Esagero?

Direi ancor di più: il bicchiere è caduto e si è rotto in mille cocci e questo non dovrebbe stupirci. A Berlino, mentre i “grandi del mondo” approvavano il piano tedesco per un embargo sull’arrivo di nuove armi e per un percorso politico e istituzionale - con la creazione di un nuovo Consiglio presidenziale, preludio per elezioni e per una nuova costituzione- nella ex Jamahiriya si combatteva e le armi continuavano ancora a giungere indisturbate nel paese. La fragile tregua, mediata da Russia e Turchia qualche giorno prima, iniziava già a scricchiolare, mentre il generale Khalifa Haftar ordinava il blocco dei terminal petroliferi dell’est. Purtroppo la conferenza di Berlino è fallita ancora prima di cominciare e questo era prevedibile. Haftar a Mosca, solo 7 giorni prima, aveva rifiutato “il piano di pace” concordato da Russia e Turchia. Il suo obiettivo, nonostante la sua presenza ai vari vertici, era, è e sarà quello di entrare a Tripoli e Misurata. Detta in altri termini, chiudere il cerchio e conquistare tutta la Libia. Con l’aiuto degli Emirati che continuano a rifornirlo di armi potrebbe riuscire a farlo. Perché accettare il piano “onusiano” ed arrivare a patti con Fayez al-Serraj?

Parliamo, ora, del blocco dei rubinetti petroliferi da parte di Haftar. Un vero e proprio ricatto quello del generale della Cirenaica. Contro chi è rivolto e quali obiettivi vuole realizzare?

Haftar vuole dimostrare di avere il controllo del paese e i pozzi di petrolio rappresentano l’economia libica. Ne consegue che controllare i pozzi vuole dire controllare il paese. E’ una prova di forza e al contempo un’arma di ricatto nei confronti della comunità internazionale. E’ come se il generale stesse dicendo agli attori internazionali: “o sostenete me o l’economia libica rimarrà in ginocchio e i problemi si rifletteranno anche su di voi”. In effetti, da quando la Libia è stata privata di più di 800.000 barili al giorno, i prezzi del petrolio sono lievitati: in poco più di una settimana, il prezzo del Brent (il riferimento mondiale per il mercato del greggio che determina il 60% dei prezzi sul mercato) ha guadagnato quasi un dollaro, arrivando a 66 dollari al barile. Inoltre con questa mossa Haftar vorrebbe depotenziare la Noc (la compagnia petrolifera statale con sede a Tripoli) per ottenere un’autorità petrolifera anche nell’est, area da cui viene estratto il maggior quantitativo di greggio. Il generale ha più volte cercato di aggirare la Noc - che invia i proventi di petrolio e gas alla Banca centrale di Tripoli, che lavora principalmente con il governo di Serra- per ottenere un maggior controllo sulla distribuzione dei proventi.

La guerra libica, per certi versi, può diventare ancora più pericolosa della guerra siriana. È così?

In questo momento ci sono tutti gli elementi per preconizzare una grave escalation di violenze che potrebbe mietere ulteriori vittime tra la popolazione. La Turchia continua a inviare mercenari in Libia a supporto delle milizie dell’ovest, sull’altro fronte, in barba a qualunque rassicurazione di rispetto dell’embargo, “piovono armi” dagli Emirati e continuano a combattere mercenari russi. In queste ultime ore l’esercito di Haftar avanza verso Misurata, probabilmente per rompere l’asse militare Tripoli-Misurata, attaccando quest’ultima per far perdere alla capitale il suo massimo alleato. Il generale sta agendo in fretta, prima che gli strateghi turchi prendano il controllo delle operazioni a Tripoli. Gli scenari non sono facilmente prevedibili. O Misurata cadrà e Haftar avrà la possibilità di arrivare a Tripoli o avremo una energica risposta turca con un enorme bagno di sangue.  In questo caso la guerra che si gioca (anche) per procura assumerebbe sempre più le sembianze del conflitto siriano, con la Turchia da un lato, la Russia dall’altro e con il gioco sporco di alcuni paesi del Golfo. C’è un’altra similitudine con la Siria: la Russia e la Turchia, grazie ai loro interessi economici comuni (come il TurkStream) potrebbero continuare a tentare un’intesa. Tuttavia, come già accaduto, gli interessi di Haftar e dei suoi alleati del Golfo potrebbero prevalere. Inoltre, il caos prodotto potrebbe favorire la presenza di jihadisti che, si sa, si muovono alla ricerca di teatri instabili in cui trovare spazio per creare ulteriore destabilizzazione, funzionale alla loro espansione. Molti combattenti sarebbero giunti in Libia dalla Siria e molti erano già presenti nel sud libico in cui si erano riparati dopo la sconfitta subita a Sirte nel 2016. Anche la presenza di jihadisti sul terreno ci riporta, in qualche modo, seppure con le dovute differenziazioni, al teatro siriano. Per quanto concerne il fattore “pericolo”, ogni guerra è una storia a sé ed è un pericolo tout court ma, per l’Italia, avere un conflitto di tale portata alle porte di casa non è certo rassicurante.

Parliamo di due attori assolutamente fondamentali nello scenario libico:il Qatar e l'Arabia Saudita. Loro non hanno, ovviamente, problemi di petrolio. Cosa vanno cercando in Libia?

Partiamo, intanto, da una evidenza. Il Qatar supporta Serraj, assieme alla Turchia, mentre i Sauditi e, soprattutto, gli Emirati arabi unti armano Haftar. C’è una spaccatura nei paesi del Golfo ed è dettata da vari interessi che, naturalmente, hanno poco a che vedere col petrolio visto che si tratta di paesi produttori. In primo luogogli interessi sono di tipo geopolitico: per gli Emirati e l’Arabia saudita è vitale frenare l’avanzata dei Fratelli musulmani che si trovano nell’ovest. Per i sauditi, in particolare, è fondamentale espandere in Libia la corrente madkhalita (una corrente di stampo salafita ultraconservatrice fondata dallo sceicco saudita, Rabi al-Madkhali, al soldo della casa reale saudita) in opposizione alla fratellanza musulmana. Anche per questo Riad sostiene il generale. Per gli Emirati, inoltre, l’idea europea secondo cui il conflitto libico deve essere risolto sul piano diplomatico e non militare non è accettabile. Da qui l’evidente impegno di Abu Dhabi nel non far mancare armi ad Haftar. Dall’altra parte c’è il Qatar che è stato uno dei principali sostenitori delle rivolte anti-gheddafiane. I motivi per cui Doha è vicina all’asse Tripoli-Ankara, sono di natura interna al Consiglio di cooperazione del Golfo in cui vi è stata una più di una “rottura” tra il Qatar e gli altri componenti, soprattutto da quando alla guida del paese c’è Tamim bin Hamad al-Thani, che ha costretto il padre ad abdicare, mostrando un atteggiamento assai più spregiudicato del predecessore. Da qui il sostegno ai Fratelli musulmani ma anche ad alcuni gruppi della galassia estremista per fare da contrappeso all’influenza degli ex alleati del Golfo, Emirati e Sauditi in primis.

Guardiamo a Macron. In Libia si sta dimostrando, forse non tanto paradossalmente, un sovranista assai duro. Qual è il vero obiettivo di Macron?Nello scenario estero la Libia è stata la massima espressione della politica ipernazionalista di Macron. Il presidente francese sostiene apertamente il generale Haftar per perseguire i suoi interessi in termini energetici ed egemonici, spesso in totale contrapposizione alla linea europea e dell’Onu. Per ben due volte ha convocato in via del tutto unilaterale delle conferenze sulla Libia invitando Haftar e Serraj e avvertendo solo a giochi fatti i membri dell’Unione europea, Italia in primis. Pochi giorni fa laFrancia si è rifiutata di votare una risoluzione europea, sostenuta anche dagli Stati uniti, che condannava il blocco della produzione del petrolio da parte di Haftar.Non servono ulteriori esempi per dire che Macron, nonostante la sua presenza a Berlino, sostenga solo ed esclusivamente Haftar e non abbia alcuna intenzione di scendere a patti con gli altri membri dell’Unione europea per una linea più inclusiva. Dirò di più: il presidente francese in questo momento, per quanto concerne la Libia, è l’elemento disgregante dell’Ue.

Erdogan e Putin, il neo Califfo e il nuovo zar, stanno giocando una partita parallela. Anzi, per usare un termine “antico”, stanno realizzando una convergenza parallela. Per entrambi il gioco è estendere la sfera di influenza a discapito della UE e degli USA. MA siamo sicuri che questo legame sia inossidabile?

Non ci sono legami inossidabili in un mondo in cui ogni Stato persegue solo ed esclusivamente il proprio interesse nazionale. Al massimo ci sono “alleanze a geometria variabile” tarate su singoli interessi comuni. E’ il caso di Russia e Turchia che in Libia (come in Siria) hanno tentato di trovare un accordo non per il bene dei libici ma perché hanno interessi che vanno ben oltre la ex Jamahiriya. In ballo non c’è solo l’affare miliardario della vendita alla Turchia da parte della Russia di sistemi missilistici S-400 ma anche questioni energetiche come il già ricordato progetto del TurkStream, il gasdotto che consentirà alle forniture russe di arrivare direttamente in Turchia attraverso il Mar Nero. La Russia è il secondo partner economico di Ankara, che nel 2018 ha visto aumentare le sue esportazioni verso Mosca del 50% rispetto agli anni precedenti. Non servono altre parole per spiegare quanti siano gli interessi in ballo e di quale portata. Anche se l’accordo per un cessate il fuoco in Libia, predisposto da Ankara e Mosca, ha avuto vita breve non credo che l’alleanza funzionale tra i due ne potrà risentire. Allo stesso modo, come ci ha dimostrato Berlino, questi player sono riusciti a marginalizzare un’Ue incapace di parlare con una sola voce e gli Stati uniti disinteressati al dossier libico. L’unico rischio che la Russia potrebbe correre nel quadrante libico è quello di essere marginalizzata dagli Emirati, i veri sostenitori di Haftar in questa sua avanzata.

Parliamo di due attori in cerca di autore. UE e Italia. per loro, dopo Berlino, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

Anche in questo caso devo dire che il bicchiere è rotto. Berlino è stata la cartina al tornasole dell’inconsistenza della politica italiana in Libia e nell’Ue. I nostri sforzi diplomatici, seppure tardivi, non sono stati premiati dall’Unione che ci ha relegati in seconda fila (in tutti i sensi). Tuttavia la stessa Europa si è dimostrata totalmente incapace di mediare una soluzione per la Libia, seppure avesse al tavolo i principali player qui coinvolti (Russia, Turchia, Emirati etc.).  La verità è che se l’Italia vuole avere una voce in Europa deve averla prima in Libia ma per ora tace. Tuttavia abbiamo ancora un buon capitale di fiducia con alcuni gruppi libici, al di là di Haftar e Serraj. Una fiducia sviluppata negli anni ma che si sta inesorabilmente affievolendo. Solo riaprendo a un dialogo con gli attori locali che conosciamo meglio di chiunque altro possiamo sperare di ritagliarci di nuovo un posto in Libia e, magari, di riflesso, anche in Europa.

E gli USA di Trump non hanno dire nulla?

Agli Usa non importa molto della Libia e agiscono di conseguenza. Hanno inviato a Berlino il segretario di Stato Mike Pompeo più per protocollo che per reale convinzione. L’ambasciata americana in Libia ha emanato un comunicato di condanna per la chiusura delle strutture petrolifere da parte di Haftar (peraltro su twitter) più per dovere che per reale convinzione.  E’ tuttavia evidente che, seppure a distanza, gli Usa tifino per Haftar poiché i suoi sponsor del Golfo sono i principali partner commerciali americani, specie per la vendita di armi.

Qual è secondo lei la via per stabilizzare la polveriera libica? 

Purtroppo non esiste una soluzione diplomatica in uno Stato in guerra. Esistono varie opzioni militari che, però, dovrebbero essere realizzate sotto egida europea o, meglio, delle Nazioni unite ma queste troverebbero l’ostracismo di molti Stati, tra cui ad esempio la Francia che vuole una vittoria tout court di Haftar. Dunque anche l’opzione militare appare lontana. Credo che, purtroppo, il destino della Libia, per lo meno per ora, sia segnato: una “instabilità controllata”con momenti di tensione più o meno intensi tra gli attori locali e i loro sponsor internazionali. E’ questa, per ora, l’unica soluzione win win per le grandi potenze regionali ma, purtroppo, non per il popolo libico.
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