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ECONOMIA

Intervista a Vladimiro Giacché

La Grecia verso il default?

Continua senza sosta la corsa del governo greco per evitare il default del Paese. Ci riuscirà? 

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di Pierluigi Mele Vladimiro Giacché  è un economista  laureato e perfezionato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Professione: Dirigente nel settore finanziario. E’ presidente di News 3.0 e  del Consiglio di Amministrazione del Centro Europa Ricerche di Roma. Negli ultimi anni ha pubblicato "La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea" (DeriveApprodi, 2011),  Titanic Europa. "La crisi che non ci hanno raccontato" (Aliberti 2012) e ha curato e tradotto " Karl Marx, Il capitalismo e la crisi" (DeriveApprodi 2009, rist. 2010). L’ultima sua fatica è : "Anschluss. L 'annessione" (imprimatur Editore). È editorialista de Il Fatto Quotidiano. Suoi saggi sono usciti su numerose riviste italiane e straniere.

Giacché, le parole del ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, tornano a spaventare l’eurozona. Per il ministro, infatti, la Grecia ha in cassa circa due miliardi di euro. Troppo pochi per pagare i rimborsi del FMI. Insomma siamo agli sgoccioli. Default inevitabile?
Da mesi ormai assistiamo a uno stillicidio di notizie sulla situazione del debito greco: la scadenze di pagamento si susseguono, e anche se finora sono state onorate dal governo Tsipras, sembra certo che entro giugno (e forse già molto prima) questo non sarà più possibile. Quanto al default bisogna intendersi sul significato dei termini: in questi anni ci sono stati diversi default che sono stati semplicemente chiamati in un altro modo. Io infatti posso non onorare un debito in diversi modi: non ripagandolo (in tutto o in parte) oppure allungando le scadenze di pagamento (come nel caso greco è già successo). In realtà tra le due cose concettualmente non c’è alcuna differenza. Anche per questo, anziché impiccarsi alle parole, è bene andare alla sostanza. E la sostanza è che il debito greco non è ripagabile. È questa la realtà con cui l’establishment europeo non vuole fare i conti. 

Le parole molto preoccupate di Mario Draghi, presidente della BCE, che pur affermando che di fronte ad un default greco “siamo più equipaggiati rispetto al 2010 e 2012” ha ammesso, però, che ci troveremmo in “acque inesplorate”. Insomma c’è di che preoccuparsi. Secondo lei cosa intende dire Draghi con queste parole?
Draghi qui dice una cosa giusta: il default greco aprirebbe scenari che nessuno oggi è in grado di prevedere. È un punto importante di differenza rispetto, ad esempio, ai governanti tedeschi (e in particolare a Schäuble), che – non saprei se per tattica o per irresponsabilità – stanno lasciando credere alla loro opinione pubblica che un “grexit” non sarebbe un problema. La verità è quella che ha detto Draghi: per quanto la Grecia sia un piccolo Stato, per quanto il suo prodotto interno lordo si aggiri intorno al 2 per cento del pil totale dell’eurozona, l’uscita della Grecia dall’euro avrebbe conseguenze potenzialmente incontrollabili.  

Indiscrezioni giornalistiche affermano che nell’Eurotower si stanno mettendo a punto misure, per non far saltare il sistema creditizio , “non convenzionali”: si parla di questa  valuta parallela “Iou” (una sorta di “pagherò”). Sono sufficienti questi tecnicismi finanziari? 
È probabile che si stiano approntando misure di emergenza. Ma è dubbio che queste misure rendano meno “inesplorate” le “acque” di cui parla Draghi. Il problema non è di ordine quantitativo: l’uscita della Grecia dall’euro, e già una doppia circolazione monetaria (come quella rappresentata dall’uso di “Iou”), infatti, comporterebbe un radicale mutamento di scenario. Di colpo si dovrebbe affiancare alla moneta comune qualcosa di molto simile a un’altra moneta, e – nel caso più estremo - ciò che era ritenuto impossibile e addirittura impensabile (ossia che uno dei Paesi membri abbandoni la moneta unica) diventerebbe realtà. Sarebbe la fine di un tabù – quello dell’intangibilità dell’euro – che ci ha accompagnato in tutti questi anni, diventando per molti una certezza incrollabile come le verità di fede. Una certezza che è lecito revocare in dubbio, se si pensa che nel solo Novecento non meno di 70 unioni monetarie si sono dissolte. Il problema è che l’eternità (e in ambito umano è meglio parlare di “durata”) di un’istituzione, cosi come di un accordo monetario, non può fondarsi sulla convinzione della sua “irreversibilità”. Può fondarsi soltanto sul fatto di funzionare bene. Un’istituzione disfunzionale e una moneta disfunzionale prima o poi lasceranno il posto a qualcosa di diverso.    

Secondo lei quanto è alto il rischio di “contagio” per il nostro Paese?
Ho letto in questi giorni diversi commenti tranquillizzanti a questo riguardo. Devo dire che non li condivido, e devo dire che a volte ascoltando certi commentatori mi è parso che con quelle rassicurazioni volessero in realtà esorcizzare le proprie paure. Il rischio di contagio lo leggiamo nello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi di pari durata.  È senz’altro vero che esso è ancora contenuto, ma è altrettanto incontestabile che in poche settimane è cresciuto di 50 punti base. Segno che il nervosismo è palpabile. E che ci sono Stati, come l’Italia e la Spagna, sui quali le tensioni che interessano i titoli di Stato greci si ripercuotono più facilmente. E non perché siano stati particolarmente pigri nell’attuare le famose “riforme strutturali”: ma perché la percezione dei mercati è che un’Europa incapace di gestire il caso greco sarebbe a maggior ragione impotente nel gestire una crisi in Spagna o in Italia, viste le ben diverse dimensioni di queste economie e del rispettivo debito. 

La crisi greca ha avuto costi sociali enormi in quel Paese. Da un lato c’è la responsabilità dei precedenti governi, quelli prima di Tsipras, e dall’altro, certamente, della UE con le sua politica di austerità. Resta il punto: i creditori (FMI e UE) vogliono che la Grecia sia credibile nella sua “road map” per uscire dalla crisi. Se dovesse dare un consiglio ai leader greci quale darebbe?
Di non seguire i cattivi consigli che Fondo Monetario e Unione Europea continuano a dar loro. Sulla strada dell’austerity, che ha già fatto precipitare il prodotto interno lordo greco di 26 punti percentuali (quasi un record in tempo di pace), non c’è alcuna ripresa e non c’è alcuna possibilità di rendere meno gravoso il fardello del debito. È vero il contrario, e gli anni passati lo dimostrano. Già anni fa l’ufficio studi della banca centrale irlandese ha dimostrato che la Grecia aveva fatto “i compiti a casa” che le venivano impartiti. I risultati sono però stati contrari a quanto sperato. E non per caso: quei compiti hanno mandato alle stelle la disoccupazione, fatto crollare i consumi e quindi distrutto la domanda interna e il prodotto interno lordo. E siccome il rapporto debito/pil è per l’appunto un rapporto, essendo crollato il denominatore di questa frazione (il pil), il numeratore (il debito) è cresciuto e diventato ancora più insostenibile.  

Per la Grecia si parla, smentiti da Varoufakis, di aiuti Russi e Cinesi. Non c’è il rischio di complicare ulteriormente la situazione?
Io credo che la Grecia abbia tutto l’interesse ad aumentare il numero dei propri interlocutori, soprattutto se si considera il trattamento che ha ricevuto da quelli che dovevano essere i suoi interlocutori privilegiati, ossia gli Stati dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona. Qui qualcuno potrebbe obiettare: “ma perbacco, l’Unione Europea ha salvato la Grecia prestandole un mucchio di soldi dal 2010 in poi!”. La verità è un po’ diversa: in realtà quei soldi prestati alla Grecia sono serviti a salvare non il paese ellenico, ma i suoi creditori privati, ossia le banche francesi e tedesche. Queste banche hanno infatti potuto riportare a casa i soldi che avevano prestato alla Grecia precisamente perché c’era qualcun altro che comprava i titoli di Stato greci in loro possesso: ossia il Fondo Salva-Stati dell’Unione Europea, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale. L’errore che è stato fatto allora (se vogliamo chiamarlo così) è stato duplice: da un lato si sono fatti altri prestiti alla Grecia senza però tagliare il valore dei crediti vantati dai creditori (crediti che quindi sono semplicemente passati di mano, e sono rimasti inesigibili come erano prima), dall’altro questi nuovi crediti concessi sono stati condizionati a politiche che si sono dimostrate fallimentari e controproducenti, mettendo in ginocchio l’economia greca. In questo modo si è caricato tutto il peso dell’aggiustamento sul debitore, senza chiedere alcun sacrificio ai creditori privati della Grecia, e proprio per questo si è resa la situazione senza via d’uscita. 
Oggi l’assoluta sordità dell’Europa alle richieste dei Greci di farla finita con quelle politiche fallimentari è precisamente ciò che spinge il governo greco a cercare nuovi interlocutori. E mi sembra davvero bizzarro l’atteggiamento di chi non ti vuole prestare aiuto, e al tempo stesso ti minaccia se provi a cercare aiuto altrove. Poi è chiaro che la faccenda si complica perché in gioco entrano variabili geopolitiche e anche militari (la Grecia è un tassello importante nel sistema della NATO), ma forse bisognava pensarci prima. 

Parliamo di UE. Certo è che la dottrina dell’austerity tedesca, quella dei falchi della  Bundesbank e del ministro Schauble, ha  fatto molto male all’Europa. Paul Krugman, in un articolo sul New York Times, afferma, con toni ironici nei confronti dei teorici del “pensiero unico” liberista, “che se avessimo continuato ad aderire alla macroeconomia dei vecchi tempi staremmo di gran lunga meglio”. Insomma la via dell’Europa è di nuovo Keynes?
È quella del buon senso e di chi sa imparare dagli errori del passato. La cosa più impressionante in tutta questa vicenda è che la cabina di comando europea ha ripetuto errori di policy che già negli anni Trenta erano costati molto cari: la crisi non si combatte con politiche deflazionistiche, e tantomeno si combatte con politiche deflazionistiche attuate contemporaneamente in tutti i Paesi di un’area economica fortemente integrata. Ma precisamente questo è quello che è stato fatto. Le somiglianze con la fine del gold standard, negli anni Trenta del secolo scorso, sono impressionanti. E anche inquietanti, visto quello che avvenne dopo.  

Ultima domanda: come giudica il “quantitative easing”? 
Tardivo e insufficiente. Tardivo, perché la Bce ha atteso molto, troppo tempo prima di intervenire: da oltre due anni, infatti, l’inflazione dell’eurozona si trova sotto il limite stabilito dallo Statuto della Bce. Insufficiente a rilanciare l’economia, perché gli effetti benefici della liquidità immessa nel sistema dalla Banca centrale europea per acquistare (anche) titoli di Stato sono destinati a farsi sentire quasi esclusivamente a livello finanziario: dando una boccata d’ossigeno alle banche e creando una bolla speculativa sia sul mercato azionario che su quello dei titoli di debito, ma senza produrre effetti degni di nota sul credito alle famiglie e – soprattutto – alle imprese. E infatti già si parla di una bad bank da pagare con denaro pubblico per far ripartire il credito alle imprese da parte delle banche italiane. Se si pensa che negli anni Novanta abbiamo privatizzato tutte le banche pubbliche nella convinzione che il privato fosse in grado di fare meglio il credito alle imprese pesando meno sullo Stato, la situazione odierna appare il peggiore dei mondi possibili: una restrizione formidabile del credito alle imprese e un suo rilancio possibile soltanto con fondi pubblici. Non sarà il “quantitative easing” a risolvere questo genere di problemi.
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