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MONDO

La pandemia non ferma il conflitto

Libia, ancora sanguinosi scontri intorno a Tripoli

Negli ultimi tre giorni si contano una ventina di vittime civili per i violenti bombardamenti di Haftar contro quartieri periferici della capitale

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di Leonardo Sgura Violenti scontri armati proseguono intorno a Tripoli, ad Ain Zara, Al Mashroa, Salah al Din e Abu Salim. Quattro persone, tra cui un bambino, sono morte per l’attacco con più di 80 razzi contro l’aeroporto di Mitiga. Negli ultimi tre giorni si contano una ventina di vittime civili per i violenti bombardamenti di Haftar contro quartieri periferici della capitale, inclusa l’area in cui si trova l’ambasciata italiana, sfiorata da un razzo caduto a poche decine di metri. 

Mentre l’attenzione del mondo è assorbita dall’emergenza sanitaria da coronavirus, il conflitto libico fa registrare una nuova escalation.  “E’ una strategia folle – dice il presidente del Governo di Accordo Nazionale, Fayez Al Serraji – che rivela la debolezza di Haftar, il cui progetto per impadronirsi del potere è arrivato al capolinea”.

E’ un fatto che l’esercito del Gna, riconosciuto dall’Onu, nelle ultime settimane sia riuscito a consolidare le difese di Tripoli, riprendendo il controllo di importanti territori perduti durante i dodici mesi di assedio alla capitale da parte dell’Lna.

Gli uomini di Al Serraji hanno riconquistato Sorman, Sabratha e altri centri minori a ovest della capitale, e ora premono sulla base aerea di Watyiah, postazione rilevante per  l’autoproclamato Esercito Nazionale Libico, che finora avrebbe perso 70 uomini per resistere all’attacco.

Le forze governative da giorni stanno bersagliando con i droni anche Trahuna, città in mano a tribù alleate della Cirenaica; operazione a cui Haftar sta rispondendo con la nuova ondata di bombardamenti contro Tripoli, in particolare sullo scalo di Mitiga, utilizzato per i voli civili ma anche per le operazioni militari, in particolare i rifornimenti turchi.
 
Dopo l’intervento diretto di Ankara nel conflitto, deciso a gennaio, i rapporti di forza che indicavano Haftar ad un passo dalla vittoria, sono cambiati.  Erdogan infatti ha risposto alla richiesta di aiuto di Al Serraji, che ha i Fratelli Musulmani come principali alleati, inviando droni, sistemi di difesa ad alta tecnologia, mezzi blindati, personale specializzato e migliaia di miliziani già utilizzati nel conflitto lungo il confine siriano.
E’ un’alleanza che ha fortemente condizionato la conferenza di pace di Berlino, chiusa a fine gennaio senza la firma dei due avversari, e vanificato la tregua firmata pochi giorni prima a Mosca. Haftar ha infatti tentato di contrastare l’intervento di Ankara, intensificando gli attacchi contro le installazioni logistiche; ma Tripoli, dopo essersi rafforzata, è passata alla controffensiva. 

Onu e Unione Europea condannano l’escalation militare e deplorano, come fanno ormai da mesi, il coinvolgimento di vittime civili nel conflitto. 

In questi giorni diventa operativa la missione Irini, decisa da Bruxelles, sulla base degli accordi di Berlino, per vigilare sull’embargo contro le armi. Al comando si alterneranno Grecia e Italia, che ha la responsabilità del primo periodo con l’ammiraglio Fabio Agostini. Ma la missione, soprattutto marittima, non piace a Tripoli, che accusa l’Europa di favorire in questo modo l’esercito della Cirenaica, il quale continuerebbe a ricevere via terra e aria gli aiuti dei suoi alleati (Emirati Arabi, Egitto, Arabia Saudita e, meno esplicitamente, Russia e Francia), mentre per i turchi sarà complicato continuare a rifornire il Gna via mare. Malta la pensa allo stesso modo, e annuncia di sfilarsi dalla missione. 

Le prossime settimane saranno dunque cruciali. Se Irini funzionerà, potrebbe incidere sul percorso di pace per cui lavorano da mesi le diplomazie internazionali.
Nel frattempo, però, la Libia resta sull’orlo dell’abisso: finora il conflitto ha provocato più di 1700 morti, 17mila feriti e oltre 200mila sfollati. Le coste restano fuori controllo, appannaggio delle organizzazioni di trafficanti di uomini tra Africa ed Europa. 

E dal 17 gennaio tutti gli impianti petroliferi del paese sono paralizzati: le tribù fedeli ad Haftar, chiedendo una equa ripartizione dei profitti, continuano a bloccare la principale risorsa economica libica, con danni che finora ammontano a 4,3 miliardi di dollari.
 
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