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ECONOMIA

Intervista a Marcello Minenna

Perché la Cina continuerà a destabilizzare i mercati e cosa dovrebbe fare l'Europa

Questa settimana si è aperta all’insegna di perdite straordinarie sui mercati azionari mondiali, tanto da guadagnarsi paragoni con tracolli epocali come quello del ‘29 o quello del settembre 2008 quando Lehman Brothers fece default. A scatenare le vendite su tutte le piazze è stata la pessima performance delle borse asiatiche, in testa quelle cinesi. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo con l’aiuto di Marcello Minenna, docente di finanza matematica all’Università Bocconi di Milano.

(GettyImages)
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Professor Minenna, ci può dire come si spiegano le dinamiche del mercati azionari della Cina e delle altre principali economie mondiali a cui stiamo assistendo in questi giorni?
Siamo di fronte allo scoppio della bolla speculativa che si è formata negli ultimi anni sull’azionario cinese con una marcata accelerazione dall’autunno 2014. L’indice azionario della Borsa di Shangai, lo Shangai Composite Index, che nel biennio 2013-2014 viaggiava tra i 2000 e i 2500 punti senza troppi scossoni, a giugno di quest’anno ha superato i 5300 punti (un rialzo di oltre il 100% in meno di un anno) complice la diffusione – sponsorizzata dal Governo – del trading on-line di quasi 100 milioni di cinesi. Nelle settimane successive è cominciata la correzione: a inizio luglio l’indice era già sceso a 3600 punti, poi qualche settimana di calma apparente (grazie alle misure straordinarie del Governo cinese per bloccare forzosamente le vendite) e infine, di nuovo, la tempesta degli ultimi giorni con un ulteriore ritracciamento in prossimità di quota 3000 punti. Rispetto ai massimi storici dello scorso giugno la perdita complessiva ha superato il 40% scatenando il panico sui mercati globali. Lunedì scorso negli USA l’indice S&P500 è crollato di quasi il 4% dopo mesi di crescita moderata ma costante; e qualcosa di molto simile è accaduto anche sulle piazze europee rivelando i nuovi rischi a cui le dinamiche asiatiche stanno esponendo la seppur timida ed eterogenea ripresa che l’Eurozona aveva faticosamente sperimentato negli ultimi mesi. Martedì, sull’onda del taglio dei tassi da parte della Banca Centrale Cinese (il quinto di quest’anno), c’è stato un rimbalzo sia negli Usa che in Europa ma una grandissima volatilità sembra destinata a perdurare nelle prossime sedute.

Lei ha parlato di bolla speculativa sull’azionario cinese. Ci può spiegare come si è formata questa bolla e se il crollo degli ultimi giorni era davvero così imprevedibile?
Quello che sta accadendo in Cina trova le sue origini nei provvedimenti presi dalle autorità per scongiurare il contagio della crisi americana del 2007-2008, proprio quella in cui è saltata Lehman Brothers. All’epoca, per preservare gli eccezionali tassi di crescita della loro economia (più del 14% nel 2007), le autorità cinesi fecero ricorso a importanti stimoli fiscali e costrinsero le banche a una massiccia erogazione di credito alimentando un boom immobiliare (nelle città i prezzi delle abitazioni aumentarono mediamente di oltre il 20%). Quando la bolla immobiliare si esaurì, si liberarono risorse finanziarie che sono state reindirizzate sul mercato azionario scatenando un rally che, con il doping degli investimenti a leva e dell’inondazione di credito erogato anche attraverso canali non convenzionali, ha galoppato a ritmi sempre più insostenibili fino alla parabola discendente di questa estate. Ricordo un report di Goldman Sachs di alcuni anni fa da cui si poteva presagire senza troppa difficoltà quello che sarebbe successo perlomeno sul mercato immobiliare e il probabile ripiegamento sul comparto azionario.

La settimana scorsa abbiamo parlato con Lei della manovra straordinaria con cui la Banca Centrale cinese (la People Bank of China) ha rimosso a sorpresa l’ancoraggio dello Yuan al Dollaro. Come si inquadra il crollo di questi giorni rispetto alla mossa sui cambi?
La questione è piuttosto complessa. In questo momento la priorità della Cina è arginare la frenata della propria economia rispetto alle performance a due cifre registrate fino a pochi anni fa: per il 2015 si stima un aumento del PIL di “appena” il 7% –  in pratica l’anticamera della recessione per l’economia cinese – e si mormora che anche questa stima sia troppo ottimistica se non alterata. Con la manovra sul cambio la Banca Centrale cinese ha messo in atto una chiara strategia mercantilista: rilanciare le esportazioni che negli ultimi anni hanno avuto una parabola discendente (-8,3% solo negli ultimi 12 mesi). In questa prospettiva staccarsi dal dollaro è stata vista come una scelta obbligata per scansare l’altrimenti inevitabile rivalutazione dello Yuan conseguente all’aumento dei tassi di interesse negli USA che, fino a poche settimane fa, sembrava imminente. Senza dubbio assisteremo a un riassestamento degli equilibri di forza del commercio internazionale, verosimilmente con una nuova impennata dell’export cinese. Tutto questo innervosisce le altre grandi economie esportatrici preoccupate di perdere quote di mercato a causa del deprezzamento dello Yuan. Allo stato è molto difficile stimare quale potrà essere il suo nuovo livello di equilibrio: i fondamentali macroeconomici della Cina sono piuttosto deboli (con un forte livello di indebitamento e tensioni sul settore immobiliare), il che ovviamente crea un’aspettativa di ulteriore svalutazione nei prossimi mesi in un contesto che permane ad elevata volatilità; volatilità del cambio con il dollaro che di certo non è gradita agli investitori internazionali che nella certezza dell’ancoraggio al dollaro avevano trovato sinora una valida compensazione di alcune criticità della realtà cinese (rischio geo-politico, rischio ambientale, interventismo governativo sui temi economico-finanziari). Insomma la Banca centrale cinese con lo sganciamento dal dollaro ha deciso che lo stimolo alle esportazioni vale più del contributo degli investimenti esteri alla produzione industriale cinese; anche se non va dimenticato che ci sono stati anni in cui il contributo di quest’ultima componente ha superato il 30% e ora siamo sotto il 20%, dato non lontano dal livello delle esportazioni. A tutto questo si aggiungono poi le incertezze sulle reazioni dei competitors della Cina.

Parla degli Stati Uniti?
Anche. Senza dubbio gli Stati Uniti sono il primo player di cui si attendono le contromosse. Una possibilità, abbastanza verosimile nella situazione attuale, è che la Federal Reserve sarà costretta a rinviare l’aumento dei tassi di interesse che era stato messo in programma dalla Yellen quando la crisi sembrava alle spalle. I mercati scommettono su questo rinvio – alcuni operatori parlano addirittura di una nuova espansione monetaria della FED, un “QE 4”, dopo gli alleggerimenti monetari degli scorsi anni – e non a caso il dollaro si svaluta e l’euro acquista valore. D’altronde non possiamo trascurare che la stretta interconnessione tra le prime due economie mondiali (Usa e Cina appunto) passa per molti canali; uno di questi è che la Cina è il più grande investitore estero in US Treasuries: circa 1.300 miliardi di dollari, intorno al 10% del debito pubblico americano. E non è un caso: la Cina ha voluto questa esposizione in quanto strumentale a perseguire le proprie strategie commerciali sul mercato americano secondo un classico schema di vendor financing; in altri termini la Cina ha fatto credito agli USA per attrarre domanda sulla propria produzione. Finora non ci sono stati problemi perché tra i due Paesi si era stabilito (complice l’ancoraggio dello Yuan al Dollaro) una sorta di gentlemen’s agreement in base a cui il Paese-creditore si assicura uno stabile assorbimento del proprio output da parte del Paese-debitore e quest’ultimo, in cambio, utilizza parte del credito ricevuto per finanziare spesa e investimenti interni e, quindi, sostenere la propria crescita. Il rallentamento dell’economia cinese e la parallela ripresa di quella americana hanno fatto saltare questo tacito accordo: la prima ripercussione sono stati l’abbandono del peg con il dollaro e, in parallelo, le iniezioni di liquidità a più riprese che la PBoC sta mettendo a segno nelle ultime settimane. Ma potrebbero esserci ben altri rivolgimenti all’orizzonte a cui gli Stati Uniti devono prestare molta attenzione.

A cosa si riferisce?
La volatilità dei mercati azionari non va sottovalutata: qualora la Banca Centrale cinese si vedesse messa alle strette potrebbe persino optare come estrema ratioper un intervento di supporto alla domanda interna, magari utilizzando non la leva fiscale bensì quella monetaria attraverso operazioni sul mercato aperto. In concreto la Cina potrebbe, ad esempio, ricorrere a un sell-off del proprio stock di titoli del debito pubblico USA: in questo modo si procaccerebbe abbondante liquidità di pregio in quanto denominata in dollari per finanziare consumi interni e, soprattutto, investimenti infrastrutturali, nella speranza di rinvigorire la crescita. Con una misura simile la Cina “esporterebbe” la propria instabilità finanziaria negli USA, che dovrebbero rivedere le loro priorità di politica monetaria per fronteggiare lo shock esogeno sulla loro curva dei tassi e la perdita di un mercato chiave per il collocamento dei loro titoli di Stato.

E per la zona euro, quale scenario si prospetta a fronte dello tsunami cinese?
Se possibile, la situazione per l’Eurozona si delinea ancora più difficile che per gli Stati Uniti. L’economia europea è infatti ancora estremamente debole (con una crescita fiacca, appena +0,3%, anche nel secondo trimestre del 2015). A questo si aggiunge che, a differenza dalle altre banche centrali, la BCE ha poche munizioni a disposizione per muovere il cambio dell’euro nell’ottica di salvaguardare le esportazioni. Tanto più che il QE deciso lo scorso gennaio è già a pieno regime da diversi mesi peraltro senza grandi benefici per l’economia reale. Anche in questo caso la nostra area valutaria si trova di fronte ai soliti problemi: i limiti operativi derivanti da una banca centrale il cui unico target è l’inflazione e la mancanza di una reale integrazione tra i Paesi membri, ciascuno attento ai propri interessi nazionali più che a qualsiasi obiettivo di crescita condivisa. Ciò che sta accadendo in Cina potrebbe essere l’occasione per prendere atto che se si vuole costruire un blocco Europeo davvero all’altezza di competere con quello cinese, americano e giapponese è ora di allargare lo sguardo abbandonando i particolarismi che hanno dominato le scene sinora (da ultimo nella gestione della questione Greca) e adottando nuove regole, più aderenti al paradigma di una federazione di Stati. Trovo infatti incredibile che mentre nell’economia globale stava montando lo tsunami, tutti gli apparati dell’Eurozona erano focalizzati su un tema, la Grecia, il cui PIL vale il 2% dell’area Euro. Vedremo se i Paesi dell’Eurozona sapranno raccogliere la sfida. Certo è che la Germania sarà la prima a dover riflettere attentamente su quanto l’educazione degli Stati membri all’austerità sia prioritaria rispetto all’impatto che questa volatilità svalutativa dello Yuan potrebbe avere sul PIL dell’Eurozona, locomotiva tedesca inclusa.
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