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USA2020

Usa 2020

Gli accordi di Abramo e l'ombra della Turchia. Perché Israele tifa per la rielezione di Donald Trump

Secondo un sondaggio realizzato nella prima decade di ottobre il 63,3 per cento degli israeliani opterebbe per la riconferma di Trump piuttosto che sulla vittoria di Biden (18,8%). Da Gerusalemme l'analisi del corrispondente

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di Raffaele Genah C’è un passaggio di una conversazione tra Trump e Netanyahu che fotografa forse meglio di tante analisi e commenti l’atteggiamento con cui Israele segue la imminente tornata elettorale negli States. Lo scambio di battute avviene subito dopo l’annuncio degli accordi che normalizzano i rapporti tra Israele e Sudan. “Pensi che Sleepy Joe (riferendosi a Biden) poteva concludere una affare di questa portata?” La domanda di Trump all’amico capo del governo israeliano avrebbe lasciato immaginare una risposta che in quel contesto appariva quasi scontata. Ma Netanyahu replica diplomaticamente: “Signor presidente, posso dire solo una cosa: accogliamo con favore qualsiasi aiuto possa venire dagli Stati Uniti e promuove la pace” aggiungendo subito dopo il riconoscimento per il percorso fatto: “… e tu, presidente, hai aiutato in modo eccezionale”.

I rapporti tra Trump e Netanyahu sono sempre stati eccellenti e il governo israeliano non ha mai fatto mistero di considerare Trump il presidente piu vicino alle proprie posizioni. E del resto lo stesso Trump alla vigilia delle ultima tornata elettorale - la terza in un anno - che avrebbe dovuto decidere da quale parte pendesse la incerta bilancia tra Netanyahu e Gantz aveva usato una formula abbastanza simile: indipendentemente da chi governa,“ i rapporti tra Stati Uniti e Israele stanno al di sopra e vengono prima di tutto”.

Ovviamente questo non significa che lo stesso Netanyahu, fuori dell’ufficialità non faccia mistero delle speranze che ripone nelle urne americane. Il rapporto tra Trump e Israele è sempre stato strettissimo e il primo atto ufficiale è stato nel maggio 2018 con lo spostamento dell’ ambasciata americana a Gerusalemme e il conseguente riconoscimento della città santa per le tre grandi religioni monoteiste come capitale dello stato di Israele. E Netanyahu pochi mesi dopo ha voluto ricambiare il gesto intitolando al presidente americano una intera collina, “Ramat Trump”, su cui sta nascendo un nuovo agglomerato urbano.

E poi la lunga gestazione del cosiddetto piano per il medio oriente più volte annunciato e poi presentato alla Casa Bianca come un risultato storico, un accordo che però una delle parti, quella palestinese ha sempre contestato e che ha poi respinto accusando gli Usa di aver fatto solo gli interessi israeliani e di aver di fatto calato definitivamente il sipario sulla possibile nascita di uno stato palestinese.

Ma il lascito più importante dell’amministrazione Trump al governo israeliano è stata quella trama di rapporti con paesi finora nemici, a cominciare dai regni e i sultanati del Golfo e poi successivamente con il Sudan –  fino ad allora nell'elenco degli stati che sostenevano il terrorismo jihadista - e che sono poi approdati negli “Accordi di Abramo”. Accordi che disegnano nuovi equilibri geopolitici dell’intera area mediorientale in chiave antisciita e antiraniana. E poi ancora, la spinta americana agli accordi per la definizione dei confini marittimi tra Israele e Libano al centro di una disputa per lo sfruttamento di un imponente giacimento naturale di gas.

Un quadro nel quale anche le possibili differenze di posizione, se non di vera e propria critica, sui comportamenti considerati più controversi da parte degli Usa risultano più sfumati. Ad esempio nei rapporti tra gli Usa e la Turchia di Erdogan, alleato Nato di peso sempre crescente su molti scacchieri della politica internazionale. E che preoccupano la comunità internazionale occidentale a partire dall’atteggiamento sui curdi in Siria, passando per la Libia, per arrivare infine alla posizione turca sul gas che mira a ridimensionare gli accordi tra Israele Cipro e Grecia rivendicando la competenza su alcuni tratti di mare che il governo di Atene considera parte del suo territorio.

Un terreno dunque particolarmente sensibile quello dei rapporti con la Turchia. “Biden – ha commentato sul quotidiano Haaretz Gabriel Mitchell dell’istituto per la politica estera nella regione - comprende i rischi che deriverebbero dall’alienare la Turchia e allo stesso modo capisce quanto sia difficile arrivare ad un approccio di consenso nei confronti di Ankara all’interno dll’East Mediterranean Gas Forum.

Politici e analisti seguono dunque con evidente e interessata attenzione il dibattito americano mentre le tifoserie locali come sempre in questi casi si dividono. Secondo un sondaggio realizzato nella prima decade di ottobre il 63,3 per cento degli israeliani opterebbe per la riconferma di Trump piuttosto che sulla vittoria di Biden (18,8).  Un orientamento molto diverso da quello ipotizzato da altri sondaggi sul possibile voto della popolazione ebraica statunitense: il 75 per cento sarebbe -secondo questa simulazione commissionata da Ajc-American Jewish Congress- favorevole a Biden mentre solo il 22 per cento voterebbe Trump.
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