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MONDO

L'analisi

Siria, perché ci vorrebbe una nuova Jalta

Il conflitto in Siria come la guerra civile spagnola, che fu il preludio della seconda guerra mondiale. Non c’è nessuna esagerazione. Per questo una nuova Jalta tra le potenze che contano potrebbe essere l’ultima spiaggia prima che sia troppo tardi

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di Zouhir Louassini Alla fine della sua visita in Russia il Re del Bahrain ha regalato a Putin una bellissima spada. “Ho chiesto personalmente agli artigiani di realizzarla per questa occasione”, dice il Re al presidente russo in un video condiviso in rete tra milioni di arabi. “Ho deciso di chiamarla la spada della vittoria” continua, e prima di salutare conclude: “e che Dio ti dia la vittoria, Inshallah”. Persino l’interprete si è sconvolto a sentire queste ultime parole. Il Re del Bahrain, paese del golfo, che deve la sua permanenza al potere all’Arabia Saudita che lo ha salvato d’una fine tragica, implora la vittoria di Putin, nemico giurato di Riyadh per il suo ruolo nel conflitto siriano! Troppo forte. Qualcuno diceva che “un politico abile sta dalla parte giusta sino all’ultimo momento. Poi all’ultimo momento passa dalla parte giusta!”.

Il Re del Bahrain con le sue parole davanti a Putin dà l’ennesima conferma che la Russia in questi momenti conta più di tutti nella zona mediorientale, più dell’Arabia Saudita e del suo alleato americano e per questo bisogna muoversi subito per continuare a sopravvivere, arte che il Re del piccolo Regno del golfo domina da quando è arrivato al potere.



La partita siriana non fa altro che complicarsi. L’Arabia Saudita vuole partecipare con un esercito terrestre in compagnia di altri paesi “sunniti”. Un messaggio chiaro agli Stati Uniti di Obama che ha “tradito” sia l’opposizione al regime di Assad sia il suo miglior alleato nella zona, Riyadh. Questa è la conclusione di tutta la stampa saudita. E’ un pugno sul tavolo che Re Salman dà per disperazione, deluso dalla posizione americana fortemente “debole”.
La guerra in Siria sta diventando il barometro per capire meglio i giochi della geopolitica internazionale. Assurdo parlare d’una guerra civile dal momento in cui i siriani, regime ed opposizione, contano pochissimo. Tutto si gioca tra i “grandi”. Un conflitto regionale che si sta trasformando poco a poco in uno scontro internazionale. Quasi quasi come la guerra civile spagnola che non era altro che il preludio della seconda guerra mondiale. Non c’è nessuna esagerazione.

Quando i sauditi hanno parlato d’una partecipazione terrestre nel conflitto usando l’argomento, poco serio, di combattere l’Isis, il premier russo ha risposto subito: “nel caso in cui siano mandate truppe di terra arabe e occidentali in Siria, l’esplosione di una guerra mondiale è un rischio”. Il pericolo si avvicina ogni giorno in cui non si trova una soluzione efficace al conflitto siriano prendendo in considerazione tutte le paure, le contraddizioni e soprattutto gli interessi di tutte le potenze presenti nella regione. Cercare un accordo ben ragionato capace di riprodurre i cambiamenti che il mondo ha conosciuto nell'ultima decade, una realtà in cui vari paesi e non solo uno Stato, come è il caso fino adesso, decidano il destino del mondo e se è possibile in un modo consensuale. Un accordo che assomiglia a quello raggiunto nella conferenza di Jalta, e preferibilmente senza “guerra fredda”. Non è una idea assurda. Lasciare le mani libere in Siria ai russi può essere non un sintomo di debolezza americana ma parte d’un accordo. Famose le immagini che testimoniano l’incontro tra Obama e Putin al margine del G20 svolto ad Antalya in Turchia, in cui sembrava che i due leader avessero raggiunto un accordo sulla Siria. Tutto è possibile anche osservando che l’incontro, durato una trentina di minuti, è arrivato pochi giorni dopo gli attentati di Parigi. Le conseguenze della guerra siriana iniziavano ad essere pagate anche dagli occidentali. Reagire è diventata una necessità anche se il prezzo da pagare era cedere davanti al “nemico storico”.



In un articolo pubblicato nel giornale arabo al-Hayat (il 18-09-2015), l’editorialista Ragheda Dergham aveva scritto, molto tempo prima dell’incontro tra i due leader, che Putin ha parlato spesso di un’alleanza regionale-internazionale e ha praticamente detto ad Obama: “Tu conduci la guerra contro l’Isis in Iraq, e io la guerra contro l’Isis in Siria”. Ciò implica che Washington dovrebbe, pubblicamente o tacitamente, accettare la strategia russa di vincere quella guerra collaborando con il regime. Dopo cinque mesi è quello che sta esattamente succedendo.

Ancora presto per capire come finirà l’intervento russo in Siria. La risposta saudita è un rifiuto totale al nuovo ruolo di Mosca nel Medio Oriente. La Turchia di Erdogan osserva con molta attenzione, decisa a non accettare cambiamenti nella geografia curda. L’Iran va avanti conquistando influenza nella zona. I paesi europei ci sono ma senza nessuna strategia, aspettando, probabilmente, qualche decisione americana. Gli Usa sembrano reticenti, come se fossero trascinati contro la loro volontà in una crisi regionale. Questo non significa che l’amministrazione statunitense si sia ritirata dal Medio Oriente ma la distanza tra “impegno” e “non ritiro” è strategicamente importante, come afferma Dergham nel suo articolo. Una cosa è certa: la Russia di Putin è decisa a sfruttare questo momento di titubanza americana.   

Per non ripetere errori già commessi in altre epoche storiche, è giunto il momento di ragionare sul conflitto siriano all’interno di una logica globale. La situazione sta precipitando verso qualcosa di molto grave e irreversibile. Una nuova Jalta, prima d’un conflitto mondiale, tra le potenze che contano potrebbe essere l’ultima spiaggia prima che sia troppo tardi. 
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