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MONDO

L'analisi

La diaspora dei cristiani ridisegnerà l'Iraq?

L'intervista ad Antonio Picasso, giornalista, collaboratore di ISPI e autore di "Quel che resta di loro. Viaggio tra i Cristiani d’Oriente”. Oltre 100 mila le persone in fuga a causa dell'Isis

Case di cristiani marchiate a Mosul
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di Veronica Fernandes Il patriarca caldeo di Kirkuk, Louis Sako, ha parlato di disastro umanitario dopo che 100 mila cristiani, per evitare la morte, sono fuggiti dalle città del nord iracheno, conquistate dallo Stato Islamico. Fino agli anni Ottanta i cristiani in Iraq erano 1,4 milioni, pochi mesi fa appena 400 mila. Per capire come si è arrivati ai giorni nostri Antonio Picasso – giornalista, collaboratore di ISPI e autore del libro “Quel che resta di loro. Viaggio tra i Cristiani d’Oriente” – parte da questi numeri.

Come mai in meno di 30 anni la comunità cristiana irachena ha visto fuggire un milione di persone?
La diaspora dei cristiani iracheni, principalmente caldei, è iniziata sottotraccia nel 2007 e in modo massiccio a cavallo tra il 2009 e il 2010. Dopo l’invasione americana del 2003 sono saltati tutti gli schemi che esistevano durante il regime di Saddam: i cristiani hanno perso la loro protezione e sono diventati bersaglio di persecuzioni. Con la caduta del rais, infatti, gli sciiti hanno preso il potere e i curdi hanno visto crescere la loro autonomia. La condizione dei cristiani, in parallelo, è peggiorata e hanno iniziato a scappare. Poi sì è arrivati alla tragedia di questi giorni.

Come vivevano nell’era Saddam?
Durante il regime di Saddam i cristiani erano considerati come cittadini di serie B: salvo rarissimi casi – come Tarek Aziz – non potevao entrare a fare parte dell’establishment politico o militare ma non erano perseguitati. Erano dhimmi, una posizione che Saddam ha mutuato dall’Impero Ottomano: pagavano una tassa ma potevano vivere in una sorta di tranquillità. La comunità era coesa e benestante, principalmente legata al commercio.

Ora lo Stato Islamico vuole creare uno "stato puro" e li ha costretti a lasciare le loro case, il patriarca ha parlato di genocidio. Che futuro si prospetta per la comunità?
In Europa è difficilissimo entrare e la loro “meta naturale”, la Siria, ideale fino al 2010, è oggi impraticabile. Il flusso di profughi in fuga dall’Iraq si dirige quindi verso Paesi come l’Australia, il Canada e anche il Sudamerica, ovunque abbiano delle reti familiari. Quasi per tutti il luogo di transito è Istanbul, dove da tempo è radicata una comunità caldea, poi però puntano ad uscire, ad innestarsi altrove.

Come viveva la comunità cristiana sotto Saddam e prima dell’avvento dello Stato Islamico?
La religione permeava moltissimi aspetti della vita quotidiana. Faccio un esempio: nelle dispute interne, che riguardassero il divorzio o questioni commerciali, intervenivano sempre il vescovo o il sacerdote. Si tratta di un’autorità parallela a quella statuale, per non andare davanti alla legge, per mantenere tutte le attività della comunità entro le sue mura, per questione di immagine, di coesione ma anche per ragioni economiche.

Per l’Iraq cosa significa perdere la comunità cristiana?
Per il Paese si tratta dell’amputazione di una parte di identità culturale, andrà perduto il patrimonio artistico: chiese, mosaici, manoscritti. I quartieri dei cristiani cambieranno volto, un pezzo di storia irachena verrà cancellata.

A essere cancellate, in questo modo, sono anche le carte geografiche disegnate con gli accordi di Sykes-Picot.
Robert Fisk ha sempre definito quelle frontiere “l’errore primigenio”. Saddam, però, ad esempio, le ha tenute e gli hanno fatto comodo. Così come al Libano. Ora però è evidente che quelle frontiere non contano più, si vedono sulle carte geografiche ma nella realtà pongono solo domande. Si tornerà indietro? Verranno riscritte? In Europa dopo la guerra in Yugoslavia i confini sono cambiati, non si può certo escludere che non succeda anche in Medio Oriente. Se l’avvento del Califfato segna l’anno zero dell’Iraq non si può sapere come possa essere l’eventuale anno uno. 
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