MONDO
L'intervista a Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo
E' di un britannico la mano che ha ucciso Foley? Intervista a Vidino: chi sono i jihadisti europei
Il terrorista che ha ucciso il giornalista americano James Foley potrebbe essere britannico. L'ipotesi nasce dall'accento con cui parla nel video diffuso dallo Stato Islamico. Quanti sono e che ruolo hanno gli europei che decidono di combattere in Iraq o in Siria.
l’uomo che ha decapitato il giornalista americano James Foley. Nel video diffuso dallo Stato Islamico l’assassino ha il volto coperto e parla inglese con quello che sembra un accento britannico, del sud del Regno Unito oppure di Londra, ipotizzano alcuni quotidiani. E su Twitter circolano commenti che parlano di un "britannico" che ha fatto tremare l'America.
Lorenzo Vidino - esperto di terrorismo islamico e autore di “Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione” – l’uccisione di James Foley riapre in modo cruento la questione del jihadismo di matrice europea. Come legge la scelta dello Stato Islamico di mostrare al mondo un assassino che si ipotizza sia britannico?
Prevedibilissima, non mi stupisce. Dal Regno Unito si stima che siano partite 500-600 persone. E, in linea generale, si può dire che gli occidentali che aderiscono al jihad vengono molto utilizzati sul fronte mediatico. E’ una forma di propaganda, di mostrare la forza dello Stato Islamico. Basta ricordare anche il caso dell’australiano Khaled Sharrouf che ha postato su Twitter la fotografia del figlio che regge la testa mozzata di un soldato siriano.
Quali sono i numeri del fenomeno?
Posso dire che sono 2000-3000 le persone che dall’Europa hanno deciso di andare a combattere in Siria e in Iraq. Circa 500-600 dal Regno Unito, 500 dalla Francia, 400 dalla Germania e 300 dal Belgio.
Quando arrivano sul campo hanno un ruolo particolare?
Essendo cresciuti in Europa sono ovviamente più deboli dal punto di vista militare ma tendono ad essere molti forti sul piano mediatico. Sanno utilizzare benissimo internet e i social media: dopo qualche settimana di addestramento è facile che si ritaglino un ruolo in questo frangente. Spesso non parlano bene l’arabo ma parlano lingue come l’inglese o il francese e quindi vengono suddivisi in katiba (battaglioni) proprio in base alla lingua. C’è la katiba dei fiamminghi, degli inglesi, dei francofoni. Spesso si conoscono già da prima e si ritrovano sul campo.
Come funzionano il reclutamento e le reti nei Paesi d’origine?
Si tratta di un fenomeno principalmente di seconda generazione dove internet ha un ruolo fondamentale. Un esempio: 300 jihadisti partiti dal Belgio sono numeri alti per un Paese così piccolo, numeri che si spiegano con il radicamento di un’organizzazione come Sharia4Belgium che, proprio grazie ai social media, raccoglie centinaia di sostenitori per le sue manifestazioni.
E l’Italia?
In Italia non dico che il jihadismo non esista ma è decisamente in fase embrionale. Monitorando il web e i profili Facebook non si superano le 50 persone che definirei simpatizzanti. Anche qui conta moltissimo internet. Anas el Abboubi, il 20enne di Brescia arrestato per terrorismo, agiva più che altro da singolo (ndr: su Facebook aveva scritto: “Lavora presso jihad”) e svincolato da gruppi era anche l’italiano Giuliano Delnevo, ucciso in Siria. Convertito, genovese, anche lui – come Anas el Abboubi – tenta senza successo di creare una rete di jihadisti senza successo, è anzi respinto dal mondo delle moschee dell’area di Genova.
C’è il rischio che il jihadismo in Italia raggiunga i numeri che ha in Paesi come il Belgio o il Regno Unito?
L’Italia ricorda la situazione del Regno Unito 10-15 anni fa. Se qui la seconda generazione sta emergendo in questi anni, lì – come nel resto del Nord Europa – la presenza di immigrati e delle generazioni successive risale a molto tempo fa. Il fenomeno potrebbe crescere, anche se è difficile prevedere in che forma. In Italia, ad esempio, mancano i quartieri come le banlieue parigine, che non si possono paragonare a zone come via Padova a Milano o Porta Palazzo a Torino.
di Veronica Fernandes
Per l'intelligence è iniziata la caccia all'uomo: sono al lavoro per identificare
I am so proud of that foreign muhajir akh, British, who climbed the ranks and shook America to it's knees.
#IS
— Amreeki Witness (@AmreekiWitness) August 19, 2014
Lorenzo Vidino - esperto di terrorismo islamico e autore di “Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione” – l’uccisione di James Foley riapre in modo cruento la questione del jihadismo di matrice europea. Come legge la scelta dello Stato Islamico di mostrare al mondo un assassino che si ipotizza sia britannico?
Prevedibilissima, non mi stupisce. Dal Regno Unito si stima che siano partite 500-600 persone. E, in linea generale, si può dire che gli occidentali che aderiscono al jihad vengono molto utilizzati sul fronte mediatico. E’ una forma di propaganda, di mostrare la forza dello Stato Islamico. Basta ricordare anche il caso dell’australiano Khaled Sharrouf che ha postato su Twitter la fotografia del figlio che regge la testa mozzata di un soldato siriano.
Quali sono i numeri del fenomeno?
Posso dire che sono 2000-3000 le persone che dall’Europa hanno deciso di andare a combattere in Siria e in Iraq. Circa 500-600 dal Regno Unito, 500 dalla Francia, 400 dalla Germania e 300 dal Belgio.
Quando arrivano sul campo hanno un ruolo particolare?
Essendo cresciuti in Europa sono ovviamente più deboli dal punto di vista militare ma tendono ad essere molti forti sul piano mediatico. Sanno utilizzare benissimo internet e i social media: dopo qualche settimana di addestramento è facile che si ritaglino un ruolo in questo frangente. Spesso non parlano bene l’arabo ma parlano lingue come l’inglese o il francese e quindi vengono suddivisi in katiba (battaglioni) proprio in base alla lingua. C’è la katiba dei fiamminghi, degli inglesi, dei francofoni. Spesso si conoscono già da prima e si ritrovano sul campo.
Come funzionano il reclutamento e le reti nei Paesi d’origine?
Si tratta di un fenomeno principalmente di seconda generazione dove internet ha un ruolo fondamentale. Un esempio: 300 jihadisti partiti dal Belgio sono numeri alti per un Paese così piccolo, numeri che si spiegano con il radicamento di un’organizzazione come Sharia4Belgium che, proprio grazie ai social media, raccoglie centinaia di sostenitori per le sue manifestazioni.
E l’Italia?
In Italia non dico che il jihadismo non esista ma è decisamente in fase embrionale. Monitorando il web e i profili Facebook non si superano le 50 persone che definirei simpatizzanti. Anche qui conta moltissimo internet. Anas el Abboubi, il 20enne di Brescia arrestato per terrorismo, agiva più che altro da singolo (ndr: su Facebook aveva scritto: “Lavora presso jihad”) e svincolato da gruppi era anche l’italiano Giuliano Delnevo, ucciso in Siria. Convertito, genovese, anche lui – come Anas el Abboubi – tenta senza successo di creare una rete di jihadisti senza successo, è anzi respinto dal mondo delle moschee dell’area di Genova.
C’è il rischio che il jihadismo in Italia raggiunga i numeri che ha in Paesi come il Belgio o il Regno Unito?
L’Italia ricorda la situazione del Regno Unito 10-15 anni fa. Se qui la seconda generazione sta emergendo in questi anni, lì – come nel resto del Nord Europa – la presenza di immigrati e delle generazioni successive risale a molto tempo fa. Il fenomeno potrebbe crescere, anche se è difficile prevedere in che forma. In Italia, ad esempio, mancano i quartieri come le banlieue parigine, che non si possono paragonare a zone come via Padova a Milano o Porta Palazzo a Torino.