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ECONOMIA

Marcello Minenna docente finanza matematica

"Le tre cose che spaventano Draghi. Deflazione, Export, Euro"

Il discorso di Mario Draghi mette in evidenza la debolezza del QE e la minaccia deflattiva in arrivo dai BRICS

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di Luca GaballoRoma Nella sua ultima conferenza stampa, il Presidente della BCE Mario Draghi ha presentato nei fatti poche novità per gli addetti ai lavori, mentre è stato confermato un quadro macroeconomico con molte incertezze. Non c’è stato nessun cambio di politica monetaria a parte una leggera modifica alle modalità di funzionamento del Quantitative Easing, che molti hanno interpretato comunque come un segnale di intensificazione dell’impegno della BCE nel contrastare le minacce di deflazione. Qual è la sua opinione in merito?
La modifica delle “modalità di ingaggio” del Quantitative Easing proposta da Draghi è di minore entità, e di natura quasi totalmente tecnica. In dettaglio, la BCE si è presa il margine per incrementare gli acquisti di una determinata tranche di titoli di Stato dal limite del 25% fino ad un massimo del 33% dell’intera emissione. Questo non vuol dire che tale flessibilità si traduca automaticamente in maggiori acquisti; anzi, Draghi è stato puntuale nel riaffermare che le quantità in acquisto, pari a 60 miliardi di € al mese, sono rimaste invariate. Inoltre si potrà procedere a superare il limite del 25% se e soltanto questo non consentirà alla BCE di rappresentare una “minoranza di blocco” nel caso di potenziale ristrutturazione forzata del debito.

La giustificazione di questo intervento sta probabilmente nella scarsità relativa di alcune emissioni di titoli di Stato di grandi Paesi, quali la Germania, che oltre a rappresentare una quota significativa della acquisti della BCE hanno spesso anche tassi di interesse in territorio negativo. La BCE si prende quindi qualche margine di manovra in più per completare senza problemi gli acquisti. Non legherei dunque questo aggiustamento tecnico delle regole del QE ad una potenziale espansione del programma di acquisti che potrebbe certamente accadere – e Draghi lo ha ribadito – ma in dipendenza da altri fattori.

Però il Presidente Draghi si è mostrato più preoccupato del solito nel valutare la forte volatilità dei mercati sperimentata nelle ultime settimane.
Ha ragione. La volatilità espressa dai mercati nei mesi passati – mi riferisco soprattutto ai rialzi improvvisi dei rendimenti dei BUND che tanto hanno sorpreso gli analisti – era per certi versi idiosincratica al programma di acquisto della BCE, cioè connessa intimamente con le sue modalità di funzionamento. È per questo che il Presidente Draghi a giugno aveva avvisato gli operatori di mercato di doversi abituare ad un’aumentata volatilità. Ora il quadro è profondamente diverso: le aspettative di inflazione sono crollate ai livelli pre-QE e la BCE è in difficoltà nel raggiungere gli obiettivi promessi. Le stime riviste, per quanto aggiustate al ribasso, continuano ad essere a mio avviso poco realistiche, soprattutto per quanto riguarda il raggiungimento di un’inflazione media nel 2016 all’1,7%.

I fattori che hanno cambiato il quadro sulle stime di inflazione sono oramai noti a tutti e riguardano la frenata improvvisa delle economie dei Paesi emergenti ed il nuovo crollo del prezzo del petrolio dopo una breve quanto insufficiente ripresa nei primi mesi dell’anno. Si tratta di fattori esogeni su cui Draghi non ha controllo e che sono destinati a mio avviso a peggiorare, ed è per questo che è apparso piuttosto preoccupato.

Ci spiega meglio come la minore crescita dei c.d. BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica) potrebbe impattare sulle aspettative di crescita dell’economia e dei prezzi in Europa?
Ci sono diverse modalità, alcune dirette, altre indirette. Da un lato, se le economie emergenti crescono meno, importeranno meno beni e servizi dall’Europa; la Cina ad esempio è il secondo partner commerciale dell’Eurozona ed il surplus record registrato dalla nostra bilancia commerciale nel corso del primo semestre 2015 dipende in buona parte dalla crescita delle esportazioni verso la Cina. La BCE ha puntato molto sull’indebolimento del tasso di cambio dell’Euro rispetto alle principali valute internazionali per innescare una ripresa economica export-driven; la strategia ha fino ad ora funzionato, con risultati spettacolari in Germania, meno esplosivi negli altri Paesi, ma più o meno tutta l’Eurozona ne ha beneficiato. Ora questo modello per la crescita della produzione in Europa rischia di incepparsi.

Un altro meccanismo è puramente finanziario, ma altrettanto importante ed opera attraverso i tassi di cambio. Lo abbiamo visto all’opera nel recente caso della svalutazione dello Yuan cinese. In un contesto globale caratterizzato da Dollaro forte ed economie emergenti in recessione, le monete di questi Paesi tendono ad indebolirsi ed a perdere valore. Se le banche centrali nazionali cercano di difendere la propria moneta, come nel caso cinese, venderanno le proprie riserve di titoli di stato di pregio: americani, europei e giapponesi; portare all’incasso i propri titoli di pregio, ad esempio i Bund, consente infatti di avere dollari che dovranno essere convertiti in valuta locale che conseguentemente si apprezzerà. Questo corrisponde ad un vero e proprio Quantitative Easing al contrario ed infatti è stato denominato Quantitative Tightening. È un po’ come se le banche centrali dei Paesi emergenti remassero contro i Quantitative Easing di USA, Europa e Giappone.

In questo quadro generale come si innesta l’ennesima debacle del petrolio?
L’economia mondiale è un sistema complesso e ci sono diversi feedback che si sono messi in moto: ad esempio il crollo del prezzo del petrolio è stato seguito da un crash dei prezzi di tutte le principali materie prime – che qualificando parte delle esportazioni di questi Paesi – ha inceppato i motori delle economie dei Paesi emergenti. Se poi questi Paesi crescono meno (e ricordiamo che Brasile, Russia e Sudafrica sono proprio in recessione conclamata), consumeranno meno petrolio e questo contribuirà all’ulteriore compressione del prezzo.
Per l’Europa questa riduzione dei costi dell’energia e delle materie prime è sia una benedizione sia una minaccia. Da un lato sta abbassando i costi della produzione manifatturiera e sta aiutando la ripartenza dei consumi, dall’altro sta imprimendo un’ulteriore spinta al ribasso dell’inflazione rendendo vani gli sforzi della BCE in tale direzione.

Quindi il Quantitative Easing si sta rivelando impotente nell’arrestare la discesa dei prezzi. La deflazione è uno scenario inevitabile?
Diciamo che c’erano fin dall’inizio molti dubbi sull’efficacia del QE nel dare una spinta alle aspettative di inflazione. Il programma si è rivelato efficace, soprattutto nella prima fase, nel comprimere i rendimenti dei titoli di Stato, ma questi erano già piuttosto bassi, quindi l’effetto pass through sull’economia reale si è rivelato molto modesto. Le banche continuano a non investire i fondi derivanti dalle vendite di titoli governativi nell’economia: a parte qualche modestissimo incremento, i prestiti alle imprese restano al palo. E se la produzione e l’occupazione non ripartono con decisione, i prezzi non saliranno.

In definitiva, il rischio che si legge nel viso tirato di Draghi è che se il prezzo del petrolio resterà depresso a lungo, le aspettative di inflazione potrebbero ancorarsi ad un valore permanentemente basso, addirittura negativo. A quel punto uno scenario di deflazione sarebbe in vista, con tutto quello che ne consegue in termini negativi per la sostenibilità dei debiti pubblici nell’Eurozona. Non dimentichiamoci che in regime di deflazione, il debito pubblico si rivaluta in termini reali ed il rapporto Debito/PIL di ogni Paese peggiora in fretta; perciò la deflazione è l’incubo di ogni governo, soprattutto se fortemente indebitato.
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